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Europa e Stati Uniti alla prova dei tassi. Cosa rischia l’Eurozona e le armi di Trump
Giugno 2014. I tassi d’interesse sui depositi overnight diventano negativi. L’Eurotower li fissa al -0,10%. È l’inizio di un tipo di politica monetaria non convenzionale. Che vuol dire? Le banche dell’Eurozona depositano la propria liquidità presso la Banca Centrale Europea e, per lo più, ne ricevono in cambio un interesse. Se tuttavia il tasso d’interesse su questi depositi è negativo, allora i ruoli, per certi aspetti, s’invertono: le banche commerciali pagano un interesse, una sorta di tassa, per depositare la propria liquidità. Luglio 2018, riferimento da intendersi come periodo in cui scriviamo: i tassi d’interesse sui depositi overnight sono pari a -0,40%. Per quale motivo tale misura è definita non convenzionale e soprattutto perché la si adotta? Con l’espressione “non convenzionale” intendiamo definire quell’insieme di misure adottate dal 2008 in poi per far fronte alla crisi. L’obiettivo dell’autorità monetaria consiste nell’impedire l’immobilismo dei capitali. Le banche, in questo modo, infatti, sarebbero costrette ad incrementare la propria attività creditizia, prestando denaro a famiglie e imprese e agevolando l’economia reale.
Qualcosa però è andato storto. Esaminando il barometro di CRIF e le risultanze delle indagini fatte da Banca d’Italia sul nostro sistema creditizio, in effetti, si scopre che, nel primo semestre del 2018, la richiesta di prestito delle famiglie ha fatto registrare un +3,7%, confermando l’andamento positivo del 2017, in considerazione della buona risposta degli istituti di credito, mentre la domanda di imprese individuali e società di capitale s’è ridotta, rispettivamente, dell’8,8% e del 12,6%. I dati riguardanti il mondo aziendale, tra le altre cose, appartengono a un decennio, l’ultimo, durante il quale le banche hanno ‘scelto di rifiutare’ le imprese italiane, favorendo invece il prestito personale e il prestito al consumo.
Si potrebbe dunque concludere frettolosamente che i tassi negativi non hanno prodotto i risultati sperati, soprattutto se ci si dispone all’attesa dell’imminente fine delle politiche monetarie espansive. Tuttavia, trarre conclusioni in modo frettoloso e immaginando che a una causa A corrisponda semplicemente e direttamente un effetto B comprometterebbe in modo grave la comprensione dei meccanismi economico-finanziari che presiedono alla nascita del rapporto tra banche centrali, banche commerciali e imprese o famiglie.
Com’è doveroso agli effetti d’un’informazione ampia, tenteremo adesso di semplificare quanto più possibile le condizioni in base alle quali i tassi sono stabiliti. Il tasso d’interesse sui depositi, in realtà, fa parte del cosiddetto “corridoio dei tassi”, cioè di quei tassi stabiliti dalla BCE in attuazione della politica monetaria. Il termine overnight ne indica la durata, che, nel caso in specie, non può essere superiore alle 24 ore. Per completare il summenzionato corridoio è necessario parlare del Marginal Lending Facility Rate o tasso di rifinanziamento marginale e del Main Refinancing Rate o tasso di rifinanziamento principale.
Il tasso di rifinanziamento marginale si applica alla vendita di denaro overnight da parte della banca centrale in seguito alla richiesta di una banca commerciale. Quando invece l’operazione di compravendita si estingue in sette giorni, si applica il tasso di rifinanziamento principale. Quest’ultimo, attualmente, è inchiodato sullo 0,00%, laddove il rifinanziamento marginale è pari allo 0,25%. Perché ne parliamo in modo così scolastico o meramente descrittivo? Perché troppo spesso si dà per scontato che un fenomeno sia comunemente inteso, cosicché ne conseguono altrettanto spesso disagi e contestazioni. Ogni organo d’informazione ha pertanto il dovere di colmare le lacune che la gente denuncia.
A questo punto, bisogna chiedersi in che modo queste scelte di politica monetaria possano influenzare la nostra vita economica e quale sia la loro importanza rispetto alle scelte che ciascuno di noi fa ogni giorno.
I primi effetti delle decisioni dell’Eurotower si avvertono nell’accensione dei mutui a tasso variabile, i quali sono indicizzati sulla base dell’EURIBOR. In pratica, le banche commerciali, tra di esse, si scambiano del denaro e il costo di tale attività di compravendita è direttamente legato all’andamento dei tassi di cui abbiamo appena parlato. L’EURIBOR non è altro che il tasso d’interesse medio calcolato ogni giorno su tutte le transazioni interbancarie. Nel rivendere il denaro al mutuatario di turno, ogni istituto di credito formula un ‘prezzo’ che è composto proprio dall’EURIBOR più uno spread. In caso di muti a tasso fisso, il costo del denaro, invece, è dato dall’EURIRS più uno spread.
Fin qui, si tratta di nozioni essenziali. La nostra prospettiva finanziaria, tuttavia, deve cambiare, dato che la BCE ha annunciato la fine dell’acquisto dei titoli sul mercato aperto, cui, presto (…non molto!) o tardi, farà seguito l’aumento dei tassi. In genere, come s’è detto, un basso costo del denaro determina un elevato indebitamento ed è logico, nello stesso tempo, che un rialzo improvviso dei tassi potrebbe creare scompensi preoccupanti nel portafoglio di debito dei mutuatari. Un effetto collaterale indotto potrebbe consistere in un imprevisto aumento dell’inflazione indiretta: i prezzi dei beni di consumo potrebbero restare invariati, nel medio termine, ma le rate del mutuo, per esempio, potrebbero crescere e ridurre la capacità ‘monetaria’ delle famiglie. Di fatto, secondo il programma ufficiale della BCE questo pericolo è bell’e scampato, almeno al momento.
Il settore cui dobbiamo rivolgere la nostra attenzione critica, invece, è quello delle obbligazioni e delle banche. Se i tassi d’interesse aumentano, è inevitabile che il valore delle obbligazioni scenda, cosicché le cedole possono essere rinegoziate, essendo, per l’appunto, il contrassegno di un’attività negoziabile; la qual cosa genera il cosiddetto fenomeno di repricing gap a sfavore degli istituti che hanno immesso il prodotto nel mercato. Se la nostra cedola vale X e ci aspettiamo di guadagnare X+1 in funzione dell’interesse, ma il tasso è appena cresciuto dello 0,5% in seguito all’aumento dei tassi, nessuno è più disposto ad acquistarla a X, pretendendo legittimamente X+1+0,5. Di conseguenza, essa deve essere venduta a X-0,5. La redditività bancaria, dunque, potrebbe subire un contraccolpo da eventi simili e molte posizioni aperte sul mercato potrebbero essere liquidate a condizioni molto penalizzanti. Gli esperti fanno rientrare questo fenomeno nel Market Liquidity Risk.
Di fatto, l’Eurozona non sarebbe affatto messa male, se non dovesse misurarsi con la bizzarria di Trump, il quale, dal nostro punto di vista, punta direttamente a conferire un nuovo corso valutario al dollaro; la qual cosa, qualora si materializzasse, ci metterebbe – questa volta, sì – in seria difficoltà. Procediamo per gradi. In materia di variazione dei tassi, la Fed è attualmente indiscussa protagonista mediante una programmazione al rialzo annunciata per il triennio a venire, fino al 2020. Di fatto, gli analisti non ne sembrano particolarmente scossi; accolgono il fenomeno come il regolare andamento di un processo finanziario razionale. In pochi sono pronti, di là dall’evidente decoupling, a documentare una possibile e preoccupante conflittualità a proposito di oil e gas e l’ipotesi di un nuovo corso del dollaro, cui abbiamo fatto riferimento.
Il problema è strettamente legato al linguaggio: dichiarare certi legami vuol dire crearne un’identità linguistica e socio-economica; il che, in altri termini, significa assumersi delle responsabilità ‘previsionali’. È doveroso pertanto tentare di ricostruire la trama di questa ‘identità’ economico-finanziaria. Tutte le volte in cui una banca centrale promuove un aumento dei tassi nel medio-lungo termine, in linea teorica, i mercati riprendono vigore. Nello stesso tempo, tuttavia, se prendiamo in considerazione l’industria petrolifera e, in particolare, quella statunitense, la prospettiva è diversa: i margini d’intermediazione bancaria salgono e così pure i costi operativi e l’intero segmento degli oneri finanziari. Questi elementi potrebbero indebolire la fiducia degli investitori, lasciando intravedere un Price/Earnings negativo. Per evitare che si crei una falla nel sistema esiste una sola via percorribile: il prezzo del barile deve essere costantemente medio-alto, costi quel che costi!
A cosa serve, in tutto questo, la Trade War? Essa si configura come una contromossa esemplare e magistrale, quantunque dannosa per gli equilibri globali e pure piuttosto scorretta, soprattutto perché il ricorso ai dazi provoca immediatamente una spinta deflazionistica e non è escluso che quest’ultima possa controbilanciare quelle opposte e summenzionate.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedere, non senza perplessità: – Che c’entra l’Europa? -. Riprendendo il filo rosso del rapporto tra tassi e istituti di credito, si può dire che le banche, non potendo piegarsi al disallineamento tra attività e passività, devono concepire metodi per tutelare le singole poste e gli impegni per cassa: dalla scolastica applicazione dello spread, che è notoriamente legato al costo del denaro, alla rimodulazione dei derivati del debito (interest rate swap, currency swap et cetera). Entrambi i metodi, tuttavia, possono essere supportati solo da una moneta forte e che prevalga nei cambi.
Cosa ne consegue?
Affidiamo la risposta alle parole di Luca Ciarrocca, giornalista di macroeconomia e autore de I padroni del mondo:
Nel gennaio del 2013, un ufficio parlamentare bipartisan, il Congressional Research Service, ha stimato che l’esposizione delle banche statunitensi nei confronti dei paesi periferici del sud Europa, i PIIGS, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, ammonta a 641 miliardi di dollari, mentre tocca i 1.200 miliardi per le sole banche tedesche e francesi. Secondo la Banca dei regolamenti Internazionali, gli istituti americani hanno 757 miliardi di dollari in contratti derivati e 650 miliardi di obbligazioni di banche europee.
Insomma, intendiamoci! L’euro è ancora una moneta forte, ma tutti gli asset basati sul debito e, in particolare, tutti quei paesi che hanno contratto un debito in dollari soffriranno parecchio a causa dell’apprezzamento della divisa statunitense. In apparenza, alcuni paesi, tra i quali quelli emergenti, potrebbero esportare a condizioni migliori, ma i dazi potrebbero costituire il naturale contrasto di quest’apparenza. Da ultimo e per correttezza, se, alla luce dei possibili risvolti valutari, proviamo a reinterpretare le tensioni tra USA e Iran (…e non solo!) sulla produzione di greggio, allora rischiamo di renderci conto che la Casa Bianca sta forse facendo qualcosa di diverso da ciò che racconta.
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