categoria: Draghi e gnomi
Contro una certa retorica del debito pubblico (e privato)
Come accade ogni volta che Banca d’Italia diffonde i dati sulla finanza pubblica, anche i recenti numeri sul debito pubblico hanno generato le stesse reazioni e gli stessi titoli ad effetto: macigno, fardello, peso per le future generazioni sono le espressioni più frequentemente utilizzate in queste occasioni.
Intendiamoci, il debito pubblico italiano è sicuramente elevato, sia per il livello monetario che aumenta di lettura in lettura, sia per l’entità rapportata al PIL. Nel mondo sono pochi i Paesi che hanno un debito pubblico superiore a quello dell’Italia.
Detto questo, però, occorre fare una prima osservazione: ciò che conta per la sostenibilità del debito non è se sia entro un determinato valore monetario, ma se esso tenda ad un determinato valore finito (ancora non chiaramente identificato) in rapporto al Pil. Come avevamo visto un po’ di tempo fa, tutto questo deve tener presente tre variabili fondamentali: il saldo primario del bilancio dello Stato, gli interessi pagati sul debito e la crescita economica nominale. Se ci si focalizza soltanto su uno solo dei tre elementi si corre il rischio di perdere la bussola nell’analisi della dinamica del debito.
Così come non è detto che saldi primari sempre più elevati riescano ad abbassare il rapporto debito/PIL, allo stesso modo non è detto che la sola crescita economica possa riuscirci. I Paesi che nel tempo sono riusciti ad abbassare il debito pubblico hanno utilizzato una combinazione delle tre variabili, a volte sfruttando una dinamica dei tassi d’interesse più favorevole, a volte facendo leva sul livello dei prezzi e la crescita nominale, altre volte attraverso ripetuti avanzi primari del bilancio pubblico.
Esiste però un elemento che hanno in comune tutte (tranne una) le esperienze di significative riduzioni del rapporto debito pubblico/PIL che si sono registrate nei Paesi avanzati e non riguarda, almeno non direttamente, le tre variabili in questione. Utilizzando il Global Debt Database recentemente diffuso dal Fondo Monetario Internazionale sono andato vedere come il debito delle imprese non finanziarie e delle famiglie si è evoluto durante i periodi in cui il settore pubblico ha significativamente ridotto il proprio debito in rapporto al PIL. Il risultato, schematizzato nella seguente figura, è che solo in un caso, sui 26 complessivamente rilevati dal 1950, la riduzione del debito pubblico è stata accompagnata da una riduzione del debito del settore privato. In tutti gli altri casi il debito delle imprese e famiglie in rapporto al PIL è aumentato.
Figura 1. Variazione del debito di imprese non finanziarie e famiglie durante episodi di significativa (intorno o superiore al 20 punti di PIL) riduzione del debito pubblico nei Paesi avanzati. Dati in punti di PIL. Fonte: IMF Global Debt Database
Inoltre, la gran parte degli episodi di riduzione di debito pubblico più recenti si colloca a destra della linea tratteggiata rossa, nello spazio che identifica gli eventi in cui il debito complessivo del sistema è cresciuto, in cui il deleveraging del settore pubblico è stato più che compensato da un incremento del debito privato. Questa fotografia non ci dice però quale possa essere la causalità tra i due fenomeni. Non ci dice se, ad esempio, la riduzione del debito pubblico sia avvenuta perché i privati, con un maggior ricorso al debito, facevano da stimolo all’economia, aumentando di conseguenza le entrate fiscali e diminuendo l’incidenza sulla spesa degli stabilizzatori automatici. Oppure se, viceversa, sia stato il maggior rigore fiscale adottato per ridurre del debito pubblico che ha drenato risorse dal settore privato, e spinto imprese e famiglie verso un maggiore indebitamento. Un’analisi più dettagliata e approfondita potrebbe spiegare quale sia, sempre che ne esista una soltanto, la causalità prevalente che giustifica il fenomeno.
È però possibile trarre, almeno in via preliminare, due principali considerazioni.
La prima è che occorre tener conto della fase del ciclo nel quale il settore privato si trova; se famiglie e imprese sono propense ad indebitarsi ulteriormente o se viceversa hanno intenzione di ridurre il proprio debito. I dati degli ultimi 70 anni ci dicono che se il settore privato non intende (o non ne ha la possibilità a causa, ad esempio, di una restrizione del credito da parte del sistema bancario) incrementare il proprio indebitamento, difficilmente lo Stato riuscirà a ridurre in modo sensibile il debito pubblico in rapporto al Pil.
Una considerazione che, nello specifico caso Italiano, si adatta abbastanza bene al fallimento, in termini di riduzione del debito pubblico e di crescita economica, dell’esperienza del governo Monti. Come lo stesso ministero dell’Economia e delle Finanze ha avuto modo di rilevare lo scorso anno, la presenza di “frizioni finanziarie” che riducono la capacità dei privati di indebitarsi (che tradotto in parole povere indica una situazione di scarsa offerta di prestiti bancari e tassi d’interesse elevati), ha portato a risultati di crescita differenti da quelli stimati all’inizio ed hanno inciso in modo determinante per il mancato raggiungimento dell’obbiettivo di riduzione del debito pubblico.
La seconda considerazione riguarda invece l’opportunità di ritenere più stabili dal punto di vista finanziario gli Stati che riescono a ridurre o, in generale, a tener sotto controllo il proprio debito pubblico. Mian e Sufi in un interessante lavoro sulla crisi degli Stati Uniti del 2007 rilevarono che gli Stati ove la crisi era stata più intensa ed i consumi privati erano scesi maggiormente, erano proprio quelli in cui negli anni precedenti i privati avevano più aumentato l’indebitamento. Anche in eurozona i Paesi che hanno visto negli anni precedenti il 2011 i maggiori incrementi del debito privato in rapporto al PIL sono stati i famigerati PIGS, e mentre si lodavano i governi di Spagna e Irlanda per la loro avvedutezza fiscale si lasciava che famiglie ed imprese aumentassero di oltre cento punti di PIL il proprio indebitamento.
Queste due considerazioni dovrebbero suggerire di approcciare i dati che periodicamente vengono diffusi sul debito pubblico con un’ottica un po’ più estesa, guardando anche a cosa stanno facendo imprese e famiglie. Ciò che preoccupa del caso italiano non è tanto il fatto che il debito pubblico stia crescendo, ma che esso avvenga in un contesto nel quale il debito privato si sta riducendo meno che proporzionalmente, mentre il debito complessivo aumenta inesorabilmente da 25 anni.
Il problema deriva dal fatto che le nuove risorse presa in prestito dallo Stato e dai privati in questi anni sono state incapaci di generare una crescita sufficiente, probabilmente perché impiegate in spese/investimenti poco remunerativi. Se sia durante le fasi di riduzioni del debito pubblico, che durante quelle di riduzione di quello privato, ci ritroviamo ogni volta con un debito complessivo più elevato, allora è davvero probabile che il sentiero che stiamo seguendo sia insostenibile.
Twitter @francelenzi