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Belpaese e pensioni: l’incrocio pericoloso è fra demografia, istruzione e coperture
L’autore di questo post è Corrado Griffa, manager bancario ed industriale (CFO, CEO), consulente aziendale in Italia e all’estero, giornalista pubblicista –
La lettura dei Rapporti INPS (l’ultimo pubblicato questo mese di luglio 2018) e dei dati ISTAT conferma che abbiamo molti dati (NOTA: spesso poco coerenti fra loro, attese diverse “chiavi di lettura” adottate) ma relativamente poche analisi di scenario per immaginare (prevedere è eccessivo) l’evoluzione del sistema pensionistico pubblico.
In premessa, ricordiamo che:
“Sul piano delle modalità di finanziamento, il modello pensionistico obbligatorio nel nostro paese si configura come un sistema a ripartizione, in cui l’onere pensionistico è ripartito sui lavoratori correnti: i contributi dei lavoratori attivi vengono immediatamente utilizzati per pagare le pensioni ai lavoratori in quiescenza. In quanto tale, il metodo a ripartizione subisce le oscillazioni del dato occupazionale, del livello retributivo degli assicurati e dell’andamento demografico.” (fonte, INPS).
È quindi evidente come sia fondamentale avere una base di lavoratori attivi crescente che “versano contributi”, a fronte di un invecchiamento della popolazione dovuto alla diminuzione del tasso di natalità ed al contemporaneo aumento della capacità di sopravvivenza e quindi della speranza di vita degli italiani, stimata in 83,49 anni (2015, B. Mondiale); nel 2002 gli ultra-novantenni residenti in Italia erano 402.000, saliti a 720.000 nel 2017 (fonte, ISTAT).
I pensionati italiani con età fra 60 e 70 anni sono 4.198.995 (il 27,2% dei pensionati), quelli con età fra i 70 e gli 80 sono 5.458.680 (il 35,3%) e (quasi) tutto raggiungeranno la soglia dei pensionati ultra-ottantenni, oggi fermi a 4.267.851 (il 27,6%) ma intenzionati a crescere, con effetti significativi sulla struttura “demografica” del sistema pensionistico. In chiave prospettica, andamento demografico (si innalza l’età media della popolazione, e quindi si estende il periodo di permanenza nella condizione di pensionato/a) ed andamento occupazionale (si riduce il rapporto fra lavoratori e pensionati, oggi pari a 1,4 lavoratori per ogni pensionato; tale rapporto era superiore a 5 negli anni ’50 e poi è via via calato negli anni successivi) aggiungono quindi difficoltà e problemi per un sistema pensionistico, che oggi deve ricorrere al sostegno dello stato, che attinge alla fiscalità generale, per sostenersi: l’apporto dello stato all’INPS nel 2017 è stato di 110, 3 miliardi, a fronte di prestazioni erogate di 312,1 miliardi e contributi incassati di 224,6 miliardi (pagina 281, Rapporto INPS luglio 2018).
L’Istat ha ricostruito le serie storiche trimestrali e di media annua dal 1977 ad oggi dei principali aggregati del mercato del lavoro; tra il 1977 e il 2012 il numero medio annuo di occupati è passato da 19.511.000 (anno in cui le pensioni pagate furono 16.766.399; NOTA: il numero delle pensioni è superiore al numero dei pensionati, avendosi casi di più pensioni erogate allo stesso pensionato) a 22.899.000 (con 23.570.499 pensioni pagate); a fine 2017 i lavoratori assicurati presso l’INPS sono 25.138.000 (fonte, INPS). La retribuzione media 2017 lorda (al netto dei contributi) è stata di 22.538 euro, con contributi medi versati all’INPS di 9.973 euro (compresa quota datore di lavoro); con tali contributi, che a livello aggregato “cubano” 205,1 miliardi, l’INPS eroga prestazioni pensionistiche a 15.477.672 pensionati INPS, con un assegno annuo lordo di 18.160 euro (fonte, INPS).
Se confrontiamo i contributi annui medi versati (9.973 euro) con l’assegno medio lordo erogato (18.160 euro) scopriamo che l’assegno medio annuo è 1,8 volte il contributo medio annuo; facciamo un piccolo esempio di calcolo (“grossolano”) … se per ogni pensionato oggi ci sono 1,4 lavoratori attivi, immaginiamo di avere 140 lavoratori che versano contributi di 9.973 euro, con un incasso di 1.396.200 euro; dall’altro lato paghiamo 100 pensionati un assegno annuo di 18.160 euro per totali 1.816.000 euro; la differenza di 419.800 euro la paga lo stato, quindi la fiscalità generale, che infatti per il solo 2017 ha contribuito per 110,3 miliardi complessivamente (Tavola 3.8 App. pg. 281 Rapporto INPS luglio 2018). Ci troviamo dinanzi ad uno sbilancio finanziario oggi “strutturale” che fa affidamento sulla fiscalità generale per sostenersi.
Che fare?
Non è nostro compito; ci permettiamo di evidenziare che è essenziale aumentare costantemente e significativamente il numero dei lavoratori attivi (e studi in passato hanno sottolineato l’importanza di avere un rapporto di lungo periodo lavoratori/pensionati “in sicurezza”, nell’intorno del 2:1; per il nostro paese, questo vorrebbe dire creare nuovi posti di lavoro al ritmo, oggi impensabile, di 800.000 nuovi posti l’anno per i prossimi 8-10 anni), e che la crescita degli occupati è più semplice, diremmo favorita, da sistemi flessibili, quindi poco rigidi, che tendono a sviluppare nuovi profili professionali rispetto a quelli tradizionali; e che è altrettanto essenziale che le retribuzioni dei nuovi occupati siano elevate, così da avere contributi previdenziali alti, in grado di ridurre lo scompenso attuale (sopra descritto); uno scenario dove la professionalità sostenuta da percorsi formativi ad elevato contenuto tecnico possa essere adeguatamente riconosciuta e retribuita.
Quindi, forte enfasi sull’istruzione tecnica, la famosa STEM (Scienze, Tecnologie, Ingegneria, Matematica), come “driver” per migliorare la posizione competitiva delle imprese e del paese: impresa ardua, in un paese come l’Italia dove solo il 26,2% dei 30-34enni ha una laurea (contro una media UE del 39,1%) con una percentuale di laureati in materie tecniche del 4,5% sull’intera popolazione.
Molto resta da fare, forse quasi tutto.
Twitter @CorradoGriffa