categoria: Vicolo corto
Le imprese crescono grazie agli eroi o alle regole? Marchionne e Riva, per esempio
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Nell’ultima assemblea annuale di AIdAF (Associazione Italiana delle Aziende Familiari) ho discusso con alcuni associati delle “regole che aiutano a crescere”, parafrasando il noto libro di pedagogia di Asha Phillips. Tuttavia, mentre l’autrice del libro sostiene che la crescita dei figli dipende dalle “persone” dei genitori, io sostenevo che la crescita delle imprese non dipende (solo) dalle persone ma (molto o anche) dalle “regole” dell’impresa. Non volevo affatto sminuire il ruolo delle persone, sia ben chiaro, ma solo il mito degli “eroi, santi, poeti e navigatori” da cui si vorrebbe far dipendere il destino delle imprese, e forse anche del mondo intero.
‘Sfortunato il paese che ha bisogno di eroi’, diceva Brecht. Infatti è ormai dimostrato che la prosperità di un paese dipende più dal suo sistema regole che dai meriti dei suoi governanti. La testimonianza più suggestiva di questa verità è forse il TED Talk di Paul Romer, che la illustra icasticamente con immagini satellitari notturne. Perché, dunque, la prosperità delle imprese dovrebbe dipendere (solo o molto) da altre ragioni?
D’altra parte se il successo di un’impresa familiare dovesse dipendere (solo, molto o anche) dai meriti dei figli, dovremmo rassegnarci all’analisi impietosa di Luca Garavoglia, che nella chiusura dei lavori assembleari di AIdAF osservava che le probabilità di trovare il talento in una sparuta manica di “figli di papà” fossero tutte contro le imprese familiari. Andandoci più pesante Warren Buffett (foto a sinistra) era solito dire che lasciare gestire l’impresa ai figli – da lui chiamati sarcasticamente lucky sperm club – è come far scegliere la squadra olimpica del 2020 fra i figli dei campioni olimpici del 2000.
Eppure il capitalismo familiare sembra raccontare una storia diversa: le imprese di famiglia non sono affatto agonizzanti, ma addirittura vincenti in molti settori. Perché? Non certo per il talento straordinario dei figli di papà, verrebbe da rispondere d’istinto, confermando indirettamente le idee di Buffett e Garavoglia.
Il mito dell’eroe è d’altra parte molto radicato nella cultura occidentale, soprattutto in quella italiana. Affiora anche nelle recenti vicende della Fiat e dell’Ilva. Sergio Marchionne è probabilmente l’esempio italiano più emblematico di eroismo manageriale. Raramente un manager ha goduto di una stima simile nel nostro paese; forse solo Enrico Mattei, ma in un’epoca e in un settore in cui lo Stato aveva un peso ben più importante. Le cronache sensazionalistiche dell’ultimo Emilio Riva (foto sopra) sembrano invece evocare – immemori del suo passato – il mito opposto dell’eroe del “lato oscuro della forza”. Oggi si ritiene quindi che la prosperità della Fiat dipenda (solo o molto) dai “meriti” di Marchionne, mentre il collasso dell’Ilva dipenda (molto o anche) dalle “colpe” di Riva.
Eppure poco più di dieci anni fa la Fiat era sull’orlo del baratro, mentre l’Ilva macinava utili come poche altre imprese in Italia. Non era dunque inverosimile immaginare la Fiat sull’orlo del commissariamento e l’Ilva fra i leader della produzione siderurgica nel mondo. Questo presentimento avrebbe ben potuto fondarsi su un giudizio rovesciato dei meriti e delle colpe di Riva e dei predecessori di Marchionne.
Non intendo qui discutere le capacità di Riva e Marchionne (foto a destra), sia ben chiaro; che fossero persone straordinarie è innegabile. Tuttavia è altrettanto innegabile che il destino delle loro imprese abbia avuto esiti opposti. Perché? Alcuni ritengono che la prosperità di un’impresa dipenda (solo, molto o anche) dalla fortuna. Se la crisi del settore automobilistico americano non avesse consentito a Fiat di acquistare Chrysler con denaro prestato dal governo americano – ma anche con il corrispettivo pagatole da General Motors per la risoluzione dell’accordo firmato da Fiat per “colpa” di Paolo Fresco – forse oggi la Fiat sarebbe in una situazione diversa: Marchionne incrociò un “cigno nero” (positivo) ed ebbe la capacità cavalcarlo. Di Riva si potrebbe dire l’opposto: incrociò un cigno nero (negativo) e ne fu travolto.
Niente è più lontano dal mito dell’eroe di un cigno nero, che per definizione sfugge a ogni controllo umano. Si potrebbe invero obiettare che coi cigni neri c’entrino poco anche le regole. D’altronde non sembra verosimile che il destino della Fiat e dell’Ilva avrebbe potuto cambiare con regole diverse: ci sono imprese che prosperano e imprese che falliscono esattamente con le stesse regole. Verrebbe quindi da pensare le regole (come gli eroi) possano fare poco o nulla contro la “forza del destino”.
Ma a ben vedere le regole di un’impresa non sono solo quelle “interne” del suo funzionamento, ma anche quelle “esterne” del suo sistema normativo. La scelta del gruppo FCA di trasferire la propria sede legale in Olanda e quella fiscale nel Regno Unito deriva dalla maggiore attrattività dei loro sistemi normativi rispetto a quello italiano.
In proposito è emblematica la testimonianza della moglie di Emilio Riva, Giovanna Du Lac Capet, che non capacitandosi del cigno nero che travolse l’Ilva e la sua famiglia nel 2013, descrisse l’esito surreale del “Decreto salva-Ilva” come una regola che ‘strappa ai Riva un’azienda sana e la affida alle mani di un commissario che nel giro di pochissimo la riduce a un colabrodo’. Di segno opposto fu la soluzione americana della crisi di Chrysler, che parafrasando la signora Du Lac Capet, ‘strappa al sindacato un’azienda decotta e la affida alle mani del manager di un gruppo straniero, che nel giro di pochissimo la rilancia’.
Il destino dell’Ilva e della Chrysler dipese quindi (molto o anche) da meriti e colpe dei governi americani e italiani o dalle loro regole? In questo caso la risposta è più facile, perché, come si è detto, l’efficienza della pubblica amministrazione dipende essenzialmente dalle sue regole e non c’è dubbio che il diritto americano riponga molta più fiducia di quello italiano nell’autonomia privata, non solo per la gestione degli interessi privati, ma anche di quelli pubblici.
Questa propensione a mobilitare i privati nella tutela di interessi pubblici fu descritta limpidamente dal giurista americano John C. Coffe: ‘Probabilmente in modo unico il diritto americano fa affidamento sui cittadini per far rispettare importanti disposizioni di legge, che in altri ordinamenti sono attuate principalmente da agenzie governative. Questo sistema di “procuratore pubblico privato” (public private attorney) è legato storicamente al diritto dei mercati finanziari, antitrust e delle azioni surrogatorie di common law, ma istituti simili si sono diffusi recentemente anche nelle azioni di risarcimento di massa in materia ambientale e nelle cause di discriminazione dei lavoratori’.
Forse un giorno arriveremo anche noi a renderci conto che i destini delle imprese non dipendono (solo o molto) dai disegni di eroi carismatici e geniali, ma (molto o anche) da regole noiose e cieche che aiutano ognuno a realizzare i propri.