categoria: Vicolo corto
Decreto dignità, ecco i conti che non tornano
L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, giudice onorario del Tribunale di Latina –
Le prime mosse “ufficiali” del Governo più populista della storia della Repubblica sembrano prendere una direzione del tutto diversa rispetto a quanto era stato prospettato, dai programmi elettorali, prima, e dal contratto di governo, poi. Lo specifico riferimento è alla stretta sul lavoro portata avanti con il recente Decreto Dignità, con il quale sono entrate in vigore le nuove “disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”.
Le modifiche più rilevanti riguardano i contratti di lavoro a termine ed andranno ad impattare, in parte, anche su proroghe e rinnovi dei contratti già in corso.
La durata massima dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore scende da 3 a 2 anni. Ancora più gravosa la questione della causale: dopo il primo rinnovo (12 mesi) torna l’obbligo di indicare la causale, cioè il motivo per cui si fa ricorso al contratto a tempo determinato, invece che indeterminato. Le causali valgono anche per i rapporti a tempo tuttora in corso, per quanto riguarda proroghe e rinnovi.
Due le fattispecie ammesse. La prima è legata a “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria” (per esempio, l’entrata di nuove commesse). L’altra causale e fa riferimento a “necessità temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria o necessità di sostituire altri lavoratori che magari sono in ferie”. Il rinnovo del contratto a termine diventa anche più caro, poiché ogni proroga ha un costo contributivo crescente dello 0,5%, rincaro che si va ad aggiungere a quello dell’1,4% già introdotto dalla legge Fornero, che aveva previsto il suddetto aumento per finanziare la Naspi (indennità di disoccupazione).
Le misure appena descritte sono state accolte con freddezza (per usare un eufemismo) dal mondo delle imprese. Se, infatti, l’obiettivo era quello di ridurre la precarietà e favorire le assunzioni stabili, si sarebbe quantomeno dovuto intervenire, in parallelo, su una decontribuzione e/o detassazione per i contratti a tempo indeterminato. In modo che, se da un lato si scoraggia il contratto a termine, dall’altro si consente all’azienda di puntare sui contratti a tempo indeterminato con un minore impatto in termini di costo del lavoro.
La stretta sui contratti a termine, invece, pare più un disincentivo alle assunzioni che altro. In tal senso si possono condividere le parole del vice presidente di Confindustria Maurizio Stirpe (anche presidente del Frosinone Calcio) secondo cui l’impatto del decreto sulle imprese sarà quello di facilitare politiche di labour saving (letteralmente, risparmio di manodopera), con effetto di compressione di posti di lavoro. La misura, sostiene Stirpe, non contribuisce alla creazione di un clima favorevole per le imprese e non si può che concordare con una tale disamina.
D’altronde i numeri non lasciano scampo, qualunque siano i proclami degli esponenti politici che hanno sostenuto questo provvedimento. Si è tanto parlato, infatti, dello scandalo degli 8mila posti di lavoro in meno, numero finito nella relazione ministeriale tecnica a commento del Decreto Dignità e che qualcuno ha ipotizzato essere un dato del tutto inattendibile e finito nella relazione per una sorta di sabotaggio.
In verità, quel numero, è ineccepibile e, forse, è anche prudenziale. Spieghiamo da dove viene fuori. I contratti a termine attivati ogni anno sono circa 2 milioni, di cui circa 80mila superano la durata effettiva di 24 mesi, ovvero il termine che (secondo il nuovo decreto) rappresenta il limite massimo per un contratto a tempo determinato. Questi 80mila contratti, quindi, con il Decreto Dignità sarebbero quantomeno “a rischio”. Con una stima prudente, si ipotizza che circa il 10% di essi non verranno confermati ed ecco come si arriva al numero degli 8mila posti di lavoro in meno. A parere di chi scrive, si tratta di un dato inconfutabile che, forse, dovrebbe essere anche rivisto al rialzo.
La misura intrapresa, sviscerata in questi termini, non può quindi valutarsi favorevolmente sotto nessun punto di vista. D’altronde, se il populismo è quella tendenza a concentrare le attenzioni politiche direttamente sul «popolo», portatore di valori positivi in contrasto con la cosiddetta «élite» dei poteri forti, non si comprende come una misura del genere, che toglie posti di lavoro e scoraggia le imprese ad assumere, possa risultare coerente con tale visione.
Sotto l’aspetto del lavoro ci saremmo attesi, coerentemente con le intenzioni e le visioni dei governanti, incentivi alle assunzioni, specialmente dei giovani, decontribuzioni e detassazioni, per ridurre l’insopportabile cuneo fiscale (differenza tra quanto costa un lavoratore all’azienda e quanto effettivamente finisce nelle tasche del lavoratore). E invece, ecco un giro di vite sulle assunzioni, unitamente all’annuncio del rinvio della pace fiscale e della flat tax.
Non proprio il massimo…