categoria: Sistema solare
Ragioni e torti di Trump sul protezionismo
* Con la collaborazione di Edoardo Capomolla
La virata protezionista americana, con l’imposizione di dazi del 25% sull’acciaio e 10% sull’alluminio e minacce di dazi per 150 miliardi su importazioni dalla Cina, ha colto molti di sorpresa. La maggior parte degli economisti e dei politici vede sotto una cattiva luce queste misure. Come mai?
L’avversione ai dazi è largamente dovuta alle teorie economiche sul protezionismo, da Ricardo e Heckscher-Ohlin fino alle più recenti di Krugman e Melitz. La teoria classica sostiene che gli scambi internazionali permettono un maggiore grado di libertà per le economie aumentando il potenziale mercato delle aziende. Allo stesso tempo esse diventano più esposte e suscettibili alle turbolenze economiche internazionali e al livello di competitività del mercato. La competizione tuttavia ha un effetto positivo per i consumatori, consentendo più scelta e prezzi minori. Inoltre, la concorrenza internazionale comporta un effetto selettivo delle imprese che migliora l’allocazione delle risorse e la produttività aggregata: soltanto le imprese più produttive, infatti, sopravvivono alla competizione dell’estero e beneficiano dell’apertura a nuovi mercati. Questa apertura internazionale può quindi portare sia benefici che minacce per un’economia e le sue aziende.
C’è poi l’esempio storico di ciò che è successo l’ultima volta che l’America ha imposto dei dazi significativi. La legge Smoot-Hawley entrò in vigore nel 1930, imponendo pesanti dazi su più di 20.000 prodotti. Questi, insieme alle controtariffe imposte in rappresaglia dai partner commerciali dell’America, furono uno dei maggiori fattori della riduzione di più di metà delle esportazioni e importazioni durante la Grande Depressione, aggravandola. Da allora l’America ha adottato una politica tendenzialmente aperta, che vedeva di buon occhio il commercio internazionale—fino alla campagna elettorale di Trump. Uno dei suoi cavalli di battaglia fu proprio l'”ingiusto” disavanzo commerciale (il divario tra i beni importati e esportati), che gli Stati Uniti coltivano verso altri stati, con la promessa di riportare lavoro in America attraverso migliori accordi. Il disavanzo dell’America era infatti di 810 miliardi di dollari nel 2017, una cifra notevole—benché l’economia americana sia basata molto più sui servizi che sull’industria tradizionale.
La decisione sui dazi è infatti dovuta alla visione che Trump coltiva del commercio internazionale come un gioco a somma zero dove o si vince o si perde, a seconda che le esportazioni siano maggiori o minori delle importazioni. Sotto questa logica, gli Stati Uniti starebbero perdendo per via del proprio disavanzo, dovuto ai “cattivi accordi” stretti dalle amministrazioni precedenti. La strategia di Trump vorrebbe ottenere accordi più favorevoli per gli States, usando dazi e ostacoli agli scambi per estorcere concessioni dai suoi partner. Per tale ragione i dazi sono stati imposti sul Canada e il Messico mentre si è in procinto di rinegoziare NAFTA, e sono stati allargati all’Europa dopo un’iniziale deroga, vista la percepita lentezza delle trattative.
Nonostante ciò, le denunce di Trump riguardo ai dazi e altri ostacoli agli scambi del Canada e dell’UE non sono prive di fondamento. Le aliquote tariffarie medie sono circa le stesse in America, Europa e Canada, cioè alla maggior parte dei beni viene applicato un dazio basso (meno del 5%). Tuttavia per alcuni beni ci sono dei dazi particolarmente alti. È il caso delle automobili americane, più volte citato da Trump, che subiscono un dazio del 10% in entrata in Europa. Al contrario, gli USA impongono solo il 2,5% sulle macchine europee.
Trump ha anche ragione sul fatto che il Canada imponga dei dazi altissimi, al 270%, sui prodotti caseari americani, rendendo praticamente impossibile la concorrenza. L’UE pure applica dazi del 33% su questi prodotti. L’Europa, inoltre, ha una serie di ostacoli non-monetari alle importazioni, come quote, maggiori ispezioni e richiesta di documentazione. Questo vale per esempio per le restrizioni su colture OGM per ragione di salute pubblica e su auto per ragioni di sicurezza e ambientali. L’America non è comunque del tutto innocente, con dazi al 350% per tabacco da fumo e 130% per noccioline.
Le accuse alla Cina di furto di proprietà intellettuale e segreti industriali sono altrettanto fondate. È da anni che le imprese americane si lamentano di pratiche scorrette da parte del governo cinese, come la richiesta di condividere tecnologia con aziende cinesi in cambio dell’entrata nel mercato cinese, riscontrata anche da un’investigazione di 7 mesi del Rappresentante al Commercio Americano.
Detto questo, quali sarebbero i benefici e gli svantaggi dei dazi?
Uno degli argomenti principali a favore dei dazi viene da Keynes. In presenza di una politica fiscale e monetaria espansiva, secondo Keynes, il pericolo è la creazione di una situazione della bilancia dei pagamenti insostenibile, come causa dell’aumento del reddito. Il protezionismo unito a una politica espansiva vorrebbe dire piena occupazione e equilibrio della bilancia dei pagamenti. Contando che gli Stati Uniti soffrono di una bilancia dei pagamenti negativa e stanno perseguendo una politica espansiva, l’analisi è certamente applicabile, nonostante sia meno rilevante l’obiettivo della piena occupazione (il tasso di disoccupazione è già al 3,9%).
Trump inoltre spera di aiutare il settore siderurgico americano proteggendolo dalla competizione. In questo modo favorirebbe le decine di migliaia di occupati del settore, danneggiando però probabilmente i consumatori americani e gli stessi produttori, anche perché la catena di produzione è ormai globale. Si tratta di una strategia che potrebbe funzionare nel breve periodo, ma se gli Stati Uniti non fossero in grado di produrre acciaio ai costi della concorrenza internazionale, ciò comporterebbe un aumento di costi per il sistema economico americano, fondato sul consumo di materiali siderurgici.
Questo potrebbe provocare a sua volta un aumento generalizzato dei prezzi dei beni, generato da un prezzo più alto delle materie prime, che li farebbe risultare meno competitivi sul mercato internazionale, con effetti negativi sull’export e di conseguenza sull’occupazione stessa. Tutto ciò potrebbe andare a colpire le classi più povere, costrette a fare i conti con prezzi più alti. Secondo l’Alliance of Automobile Manufacturers, il costo di un veicolo potrebbe salire di addirittura $5800, causando una diminuzione delle vendite da uno a due milioni di veicoli, e una decrescita della produzione del 1.5%, con il rischio di licenziamento per 195.000 lavoratori.
Un’analisi della Trade Partnership ha concluso che, da una parte, i dazi aumenterebbero l’occupazione nel settore metallurgico con 26.280 nuovi posti di lavoro nel corso dei primi 3 anni, ma allo stesso tempo ridurrebbero l’occupazione netta nel resto dell’economia di 432.747 posti: 16 posti persi per ogni nuovo lavoro nell’industria metallurgica. Questo perché un numero circa 40 volte maggiore di persone lavora in settori che utilizzano acciaio e alluminio (6.5 milioni) rispetto a quanti siano in lavori connessi alla produzione degli stessi (170.000).
Bisogna poi considerare gli effetti negativi delle risposte di rappresaglia dei partner commerciali americani. Le contro-tariffe europee su beni come Harley-Davidson e bourbon potrebbero suscitare ulteriori dazi da parte dell’America, questa volta colpendo l’industria automobilistica, un mercato estremamente sensibile. Le esportazioni di auto dall’Europa all’America sono valse 32 miliardi di dollari nel 2017, cioè 5 volte le esportazioni combinate di acciaio e alluminio. L’OECD ha stimato che se i dazi aumentassero del 10%, la crescita globale verrebbe ridotta del 6%.
Nonostante gli evidenti effetti negativi che una guerra commerciale comporterebbe, il protezionismo sta tornando in auge. Trump ha sicuramente incanalato un sentimento comune a certi strati della popolazione, preoccupati dai dislocamenti industriali causati da delocalizzazione e automatizzazione. Capire come coniugare i benefici derivanti dal libero scambio garantendo protezione per i lavoratori rimane una domanda cruciale che la politica deve iniziare ad affrontare. Una cosa però rimane certa: in una guerra commerciale non ci sono vincitori.
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