categoria: Vicolo corto
Il decreto dignità e quella distanza stellare da modernità e innovazione
Pubblichiamo un post di Attilio Pavone, avvocato e partner di Norton Rose Fulbright –
I primi commenti all’ennesimo intervento legislativo sulla disciplina dei contratti a tempo determinato hanno correttamente sottolineato sia l’approccio “ottocentesco” e inutilmente punitivo nei confronti delle imprese (Orioli) sia la conseguente confusione applicativa ed il disorientamento degli attori del mercato del lavoro (Rota Porta).
Il ripristino – quantomeno per contratti di durata superiore ai 12 mesi – delle causali giustificative del termine in un mercato già da anni liberalizzato appare già di per sé un inutile ritorno a complicazioni che non sconfiggeranno il lavoro precario.
Ma uno sguardo più ravvicinato al contenuto del provvedimento rivela una idea di impresa ancor più anacronistica. Il “decreto dignità” non si limita infatti a reintrodurre le causali, ma le infarcisce di concetti già superati dalla riforma del 2001, che – semplificando il precedente regime di causali analitiche – prevedeva in generale ragioni “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se (aggiunta del 2008)riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”.
Al netto di elementi fisiologicamente connessi con i rapporti di lavoro a termine, quali le esigenze di sostituzione dei lavoratori assenti o la stagionalità, le nuove condizioni di legittimità dei contratti a termine di durata superiore ai 12 mesi appaiono quantomeno sorprendenti. In base al decreto devono infatti sussistere, alternativamente:
“esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro”, oppure
“esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.
Tralasciando la decrittazione di requisiti vaghi quali l’oggettività delle esigenze o la significatività degli incrementi, la cui difficile interpretazione farà ripartire di slancio l’industria del contenzioso legale, è evidente che l’azienda che ha in mente il legislatore è quanto di più distante da ogni forma di modernità ed innovazione. In un mondo del lavoro che deve ripensare alle proprie regole per rispondere alle sfide delle nuove tecnologie, non è pensabile che un imprenditore debba attendere il materializzarsi di una esigenza temporanea “estranea” alla propria normale attività per estendere un contratto a termine. O che alternativamente possa far fronte ad incrementi dell’attività ordinaria ma solo a patto che non siano “programmabili”… In questo modo viene del tutto obliterata la funzione tipica del contratto a termine, e cioè quella di adeguare l’organico ai variabili fabbisogni produttivi del mercato.
Di fatto, il “decreto dignità” ci dice che i contratti a termine non potranno durare più di 12 mesi. È discutibile che da ciò possa derivare un aumento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, peraltro anch’essi disincentivati da un innalzamento delle indennità risarcitorie in caso di illegittimità del licenziamento. Come sembrano ribadire anche i recenti dati ISTAT sull’occupazione, non è certo a colpi di rigidità che si creano posti di lavoro.
LinkedIn: Attilio Pavone