categoria: Tasche vostre
Facciamo chiarezza: lo spread lo paga il contribuente. Vitalizi? fumo negli occhi
Nonostante i ministri del governo guidato da Giuseppe Conte abbiano giurato, sembra di essere ancora in campagna elettorale, di sentire dichiarazioni ad effetto, di vedere ministri affermare cose manifestamente non realizzabili, ascoltare discorsi insensati, come quello dell’Italia asservita agli interessi della grande finanza. Il premier in pectore – in sede di replica nel corso del dibattito sulla fiducia in Senato – ha esortato a non fare “dello spread il nostro vessillo, l’unico riferimento: lo spread nasconde la speculazione finanziaria”. Come se il mercato dei capitali fosse popolato solo da trader e speculatori pescecani che vogliono punire la fragile e incolpevole Italia. Ma suvvia!
Proprio domenica scorsa il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha spiegato come il nostro debito pubblico sia per oltre il 50 per cento nei portafogli degli italiani, per il 15 in quello della Banca d’Italia e per il 33 in mani estere, dove ci sono “fondi pensione, fondi sovrani e altri soggetti tra cui anche una piccola componente di speculatori”. Visco ha sentito la necessità di ribadire cose note ai più (ma non a coloro che sulla rete credono che sia tutta colpa della Banca centrale europea che ha rallentato – falso! – gli acquisti parte del Quantitative Easing), ossia che “tutti questi investitori tendono a proteggersi dai rischi e il tasso di interesse sui nostri titoli di Stato sale se questi investitori percepiscono incertezza o addirittura sentono proposte che non capiscono”.
Magari Visco si riferiva ai miniBot, “moneta parallela”, che nella mente del duo Borghi & Bagnai dovrebbe servire a saldare i debiti dello Stato verso le imprese. Fortunatamente il saggio ministro dell’Economia Giovanni Tria ha risposto per le rime a questi fantasmagorici progetti senza senso con queste parole definitive: “Con soluzioni tampone non si risolve nulla”.
Persone avulse dai mercati finanziari straparlano e non consentono all’opinione pubblica di capire quanto lo spread – non solo verso i titoli tedeschi, ma anche verso quelli spagnoli o portoghesi – sia quanto mai importante, perché misura la fiducia degli investitori internazionali verso il nostro Paese, che – non dimentichiamolo – ha bisogno come il pane di credibilità, visto che deve rinnovare ogni anno ben 400 miliardi di titoli in scadenza (più di un miliardo di euro al giorno!).
Siccome le banche italiane hanno in portafoglio miliardi di euro di titoli di Stato, ogni calo di questi porta ad una svalutazione che si traduce potenzialmente in perdite che vanno a colpire il patrimonio ai fini di Vigilanza, e quindi indirettamente a diminuire la capacità di fare credito a imprese e famiglie.
C’è ancora gente – incredibile a dirsi – che pensa allo spread come a un indice esoterico, un complotto degli speculatori internazionali. Nel Paese di Padre Pio tutto è possibile. Come ha scritto lo storico Sergio Luzzatto “le stigmate e i miracoli di Padre Pio interessano meno per quanto rivelano di lui che per quanto rivelano del mondo intorno a lui” (Padre Pio, Einaudi, 2007, p. 9). L’ignoranza degli italiani su spread e finanza rivela molto dello stato del Paese, dove, secondo gli studi del linguista Tullio de Mauro, un buon 30% è analfabeta funzionale, ossia non riesce a comprendere e riassumere un articolo di giornale.
Siamo sempre alla ricerca di complotti. Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, nelle sue memorie (Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, 1993) scrisse parole memorabili:
“Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascistica, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale. Quando gli squilibri interni raggiungono una dimensione tale da intaccare la fiducia, ecco che scatta questa mentalità difensiva, ecco il complotto internazionale, ecco comparire gli speculatori, i disertori, i pescecani che portano all’estero interi pezzi della ricchezza nazionale… La tesi che denuncia piani destabilizzanti, orditi da circoli occulti della finanza internazionale, dimostra come dal profondo della cultura italiana emerga un rifiuto istintivo per l’apertura dei mercati, per le regole della concorrenza, della libera impresa, il rifiuto del principio secondo cui il cittadino ha il diritto di esprimere un voto quotidiano sull’operato del governo, della classe politica, scegliendo se convogliare il proprio risparmio sui Titoli della Repubblica o su quelli di altri Stati”.
Oggi sul Corriere della Sera l’avvocato (Schillings Partners) del fondo inglese Alan Howard chiede chiarimenti sul significato della storia raccontata da Federico Fubini il 9 giugno (titolo del pezzo: L’improvvisa fortuna del fondo inglese nei giorni di tempesta sui titoli di Stato). Il vicedirettore del Corriere risponde così: “Non abbiamo mai inteso accusare o suggerire che ci siano stati reati di qualunque tipo o comportamenti impropri da parte di Howard”. A fronte di qualche fondo che ha guadagnato nel mese del crollo dei titoli di Stato italiani, ci sono molti altri investitori italiani ed esteri – investiti nei fondi di investimento obbligazionari, bilanciati e azionari Italia – che hanno perso. Perché lo spread ha un riflesso sulle nostre vite. Costa al contribuente. Se lo Stato destina parte del gettito fiscale a pagare l’onere del debito, se i tassi richiesti dal mercato salgono, non ci sono santi, o si aumentano le tasse (impopolare), o si tagliano i servizi pubblici (sanità, giustizia, ordine pubblico, scuola) o si fa altro deficit e quindi aumenta il debito, che deve essere continuamente finanziato. E meno male che i tassi a breve li decide la Bce e non il mercato, altrimenti sarebbe salito anche l’Euribor, e con lui le rate dei mutui a tasso variabile.
Prima della diffusione del “Contratto di governo del cambiamento” lo spread a 10 anni tra titolo italiano e tedesco era nell’intorno di 130 punti base (1,30%). Volato fino a 320 nei giorni di maggiore tensione, oggi siamo nell’intorno di 230 (e difficilmente scenderà, più probabile che rimanga su questi livelli). Col debito pubblico mostruoso che abbiamo creato negli ultimi 50 anni il conto della serva ci dice che ogni punto percentuale ci costa circa 3,5 miliardi di euro l’anno. Costa al contribuente, a tutti noi, o comunque paga le tasse.
Altro dato derivante dall’asta dei Bot di ieri. Un mese fa i contribuenti italiani incassavano 5,5 milioni per ogni miliardo di Bot annuali emessi, in virtù dei tassi negativi. Oggi gli stessi contribuenti pagano 3,6 milioni, grazie al ciarlatanesimo imperante. E nell’asta di questa mattina i rendimenti del BTP a 3 anni sono schizzati all’1,16%, quelli sui BTP a 7 anni al 2,37%, ai massimi dal 2014.
I pentastellati per sparare un po’ di fumo negli occhi dell’opinione pubblica ad ogni piè sospinto parlano dei risparmi futuri sui vitalizi dei parlamentari.
Necessario chiarire due punti:
1. I vitalizi per gli attuali deputati e senatori non esistono più. Il parlamentare prenderà la pensione a tempo debito. Si parla di tagliare i vitalizi degli ex parlamentari (2.600) che costano circa 206 milioni di euro l’anno. Vogliamo tagliarli un po’? Procedere al ricalcolo col metodo contributivo, come suggerisce l’ottimo Tito Boeri. Sarebbe un bene, anche se, per quanto si è letto sulla stampa, l’incontro tra il presidente dell’INPS e il presidente della Camera Roberto Fico non è andato bene. Quest’ultimo ha tergiversato e non ha ancora dato a Boeri i dati sui contributi effettivamente pagati dai parlamentari. Senza i numeri, non si può procedere.
2. Parliamo di ordini di grandezza. La buriana sui titoli di Stato innescata dai progetti mirabolanti del governo, cosiddetto, del cambiamento (in meglio o in peggio si vedrà), ci costa, se le cose rimangono così sui mercati, circa 3,5 miliardi l’anno. I vitalizi, se si riuscirà un giorno a tagliare qualcosa, mettiamo 100 milioni l’anno. Vogliamo continuare a parlare dei risparmi sui vitalizi degli ex parlamentari? Stabiliamo, come ci invitò a fare Paolo Sylos Labini, una corretta gerarchia nell’ordine delle priorità.
Twitter @beniapiccone