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Donald Trump ha ragione sul protezionismo europeo, vi spiego perché
Pubblichiamo un post di Giacomo Lev Mannheimer, fellow dell’Istituto Bruno Leoni. Per l’Istituto Bruno Leoni è autore del Focus “I libri non sono tutti uguali. Il caso dell’IVA sugli e-book” e – con Serena Sileoni – del Focus “Città metropolitane: una nuova tappa di una storia infinita”. Scrive su Leoniblog e collabora con diverse testate online –
“Né tariffe, né barriere, né sussidi!”. Non sono le parole di una canzone di John Lennon, ma quelle pronunciate da Donald Trump ai suoi omologhi del G7 per giustificare la minaccia di introdurre nuovi dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio. Un paradosso che Trump motiva contestando ai propri partner di essersi approfittati di regole ingiuste all’interno del WTO, danneggiando la posizione commerciale degli States. Sarebbero stati i suoi predecessori, sostiene Trump, ad affrontare con troppa indulgenza la situazione, e pertanto a lui spetta il dovere di correggerla.
Che le regole del WTO siano complessivamente ‘ingiuste’, o dannose per gli USA, è opinabile e assai complesso da determinare. Del resto, sarebbe a dir poco ingenuo prendere alla lettera l’auspicio del Presidente USA, che sostiene di essere disposto ad azzerare dazi e barriere se anche i suoi partner lo facessero, a maggior ragione dopo che lo stesso Trump ha di fatto abbattuto le già vane speranze di concludere il famigerato TTIP. Ma al di là di considerazioni squisitamente politiche, un’affermazione giusta è giusta indipendentemente dal suo estensore. E su una cosa Trump ha ragione: i leader dell’Unione europea su dazi e sussidi hanno poco, anzi pochissimo da insegnare.
È vero: la percentuale delle tariffe doganali imposte dall’Unione europea ai prodotti statunitensi è mediamente bassa rispetto al resto del mondo, con cifre oscillanti fra 1.6% e 4% a seconda che si consideri la media delle aliquote totali o quella relativa alle merci effettivamente importate (IMF 2018). Ma il dato generale – cioè il “dazio medio” applicato dall’Ue nei confronti del resto del mondo – è nettamente il più alto del G7: 5.3%, contro il 3.5% degli Stati Uniti, il 4.2% del Giappone, e il 4.1% del Canada (WTO 2017). Per arrivare a percentuali comparabili con quella dell’Ue bisogna guardare ai paesi emergenti, che per la necessità di tutelare le produzioni locali sono soggetti a regole differenziate da parte del WTO.
Anche per quanto concerne specificamente il commercio atlantico, considerare l’aliquota media è metodologicamente scorretto, per un motivo semplice: si tratta di un caso emblematico di confirmation bias. Com’è ovvio, gli Stati impongono dazi e barriere sui prodotti che vengono realmente importati, ‘minacciando’ in questo modo la produzione locale. Non c’è ragione di imporre dazi e barriere su prodotti che non vengono importati, e questo spiega perché i dazi nei confronti degli Stati Uniti siano così ridotti mediamente, ma abbiano picchi ben più elevati (e viceversa): perché i dazi, per loro natura, sono una risposta selettiva alle caratteristiche di un determinato mercato. Prendere in considerazione il totale e non le sue singole parti ha un significato a livello statistico, ma non certamente per analizzare e giudicare le relative scelte politiche.
Non è un caso, di conseguenza, che i dazi si concentrino su alcuni prodotti, la cui concorrenza da parte di produttori statunitensi si ritiene possa occupare quote rilevanti del mercato in loro assenza. L’esempio più noto, menzionato da Trump ogni volta che affronti l’argomento, è quello relativo alle automobili, il cui dazio di importazione è del 10%. Ma non si tratta di un esempio isolato: altri casi emblematici riguardano biciclette (15%), scarpe (17%), alluminio (7.5%, contro il 2.8% imposto dagli USA), sughero (4.6%, contro l’assenza di dazi negli USA).
Un capitolo a parte, poi, lo merita il settore agricolo. È lì, a ben vedere, che si gioca – e non da oggi – una vera e propria guerra commerciale. Qui le aliquote dei dazi sono esorbitanti: 17.3% sul miele, 13.6% sulle carote, 14.4% sulle patate, 20.8% sulle fragole, 12.8% sui limoni, 12% sulla carne di manzo e di agnello. Non solo si potrebbe continuare, ma a ben vedere i dazi non sono neanche l’arma più importante con cui l’Unione europea difende artificialmente la sua produzione agricola.
Il vero scudo dell’agricoltura europea si chiama Politica Agricola Comune (PAC), ed è un gigantesco sistema di sussidi pubblici all’agricoltura, capace di occupare da solo il 38% dell’intero bilancio dell’Unione europea, che da decenni mantiene e anzi promuove aziende e modelli produttivi inefficienti (come l’agricoltura biologica o l’agricoltura di prossimità), con effetti nefasti tanto nei confronti dei produttori europei (incentivati a rispondere ai criteri stabiliti dalle norme che regolano i finanziamenti, e non invece alle preferenze dei consumatori) quanto verso il resto del mondo (i cui produttori, e in particolare quelli africani, soffrono il dumping europeo e vengono in questo modo deliberatamente e artificialmente rallentati nel loro processo di sviluppo economico).
Negli ultimi anni, infine, si è registrato un netto aumento delle cosiddette barriere non tariffarie: quote, standard e norme di sicurezza in grado di disincentivare le importazioni senza formalmente contravvenire alle norme del WTO. UNCTAD e Peterson Institute hanno calcolato che negli ultimi dieci anni un quarto degli interventi legislativi legati agli investimenti esteri nei paesi dell’OCSE è stato sfavorevole verso gli investitori, spesso imponendo quote di prodotti o servizi realizzati all’interno del paese (nel 10% dei casi).
Azzerare tariffe, barriere commerciali e sussidi fra tutti i Paesi membri, come auspicato da Trump alla fine del G7, appare oggi, con il vento del protezionismo che gonfia le vele ai governi di mezzo mondo, poco più che una boutade. La provocazione di The Donald, però, un risultato potrebbe aiutare a raggiungerlo: quello di svelare, dietro la foglia di fico dell’indignazione di quasi tutto l’arco della politica europea nei confronti dei dazi di Trump, la realtà di un’Unione europea almeno altrettanto protezionista. Se volesse dimostrarsi davvero orientata all’apertura e al commercio internazionale, l’Ue potrebbe iniziare dando l’esempio e abbattendo le sue, di barriere. Una volta tolta la trave dal proprio occhio, allora potrebbe giudicare con più credibilità la pagliuzza altrui.
Twitter @glmannheimer