Sull’apostasia di Farinetti e su quanto costa fare impresa in Italia

scritto da il 08 Giugno 2018

Molto rumore ha fatto l’apostasia di Oscar Farinetti, renziano di ferro e di farro, sorriso baffuto della rottamazione, habitué della Leopolda e – per la fugace ma irripetibile stagione della rivoluzione fiorentina – efficientissimo ufficiale di collegamento tra i petali di un giglio non ancora assurto alle vette della stregoneria e gli studî lungimiranti e cioè già ospitali dei talk show. Il gabinetto Conte attende ancora di brindare alla fiducia quando lui avverte «ora tifo questo governo, perché c’è»; e a Renzi rivolge la carezza dell’antico sodale – «sono uno fedele per natura, tifo sempre la Juve, sono sposato da 40 anni con mia moglie e voglio bene agli amici per sempre» – ma soprattutto la scudisciata dell’azionista di riferimento scornato: «se uno perde, significa che errori ne ha fatti, mi dispiace per Matteo, ma è la politica».

Ma è proprio di politica che stiamo parlando? Se così fosse, occorrerebbe trovare una giustificazione per la cura pettegola che riserviamo alle opinioni del cittadino semplice Oscar sulla nuova direzione del paese. Quando salta sul carro – meglio: sul taxi – dei vincitori, Farinetti si dedica solo a coltivare un ingrediente primario del proprio mestiere: si siede a tavola, trama relazioni, impartisce patenti di credibilità, ostenta malleabilità d’intenti: cerca, cioè, sponde sicure per navigare il mare procelloso del mercato. Il posizionamento pubblico degli industriali ha ben poco a che fare con le loro intime preferenze ideologiche e molto a che vedere con le esigenze spicciole dell’ecosistema in cui si muovono. Del resto, il patron di Eataly non fa nulla per nasconderlo: supporta l’esecutivo in carica «perché c’è» – perché l’unica legge degli affari è interpretare la razionalità del reale.

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Certo, è lecito arricciare il naso di fronte allo spettacolo di sé offerto dagli imprenditori nei salotti e nelle anticamere dei palazzi. Si parva licet, viene naturale misurare l’approccio di Farinetti con quello di un signore che non avrà forse previsto l’impatto sociale del sale rosa dell’Himalaya, ma che qualche negozietto è riuscito ad aprirlo comunque. In Falce e carrello – lettura dal mai abbastanza celebrato valore pedagogico – Bernardo Caprotti riepiloga la propria avventura pionieristica nella grande distribuzione, dettagliando i contrattempi che le amministrazioni locali attigue a un certo côté partitico-sindacale-cooperativo gli hanno via via imposto: licenze vedo-non vedo, reperti etruschi irremovibili (ma provvidenzialmente rimossi a beneficio d’investitori più presentabili), concessioni edilizie condizionate… Ostinato milanese di Brianza, Caprotti abbandonò questa valle di lacrime e archeologia su commissione e prestiti sociali lasciandosi dietro un impero da 7 miliardi di fatturato, ma non ebbe il tempo di vedere l’insegna Esselunga luccicare su Roma.

Morale: fare impresa senza coperture politiche è possibile persino in Italia, ma è infinitamente più faticoso. Postilla della morale: di Caprotti ce n’è uno. Corollario della postilla: il punto non sono le oscillazioni di Farinetti, ma la cultura economica di un paese che condanna gli imprenditori a scegliere tra eroica autosufficienza e diversi livelli di collaborazione che possono sfumare nel servilismo. Quando la benevolenza di un assessore vale anni di lavoro; quando un tratto di penna del legislatore manda al macero biblioteche di piani industriali; quando la parola distratta di un ministro può affossare o coronare trattative milionarie; quando chiediamo più regole e più stato senza avvederci che quello che accresciamo non sono le garanzie per i cittadini, bensì unicamente i margini d’ingerenza della politica nel gioco economico, ciò che otteniamo è precisamente una classe imprenditoriale più interessata a lusingare il potere che a spendersi per soddisfare il consumatore. Perché Farinetti dovrebbe fare eccezione? Non siate troppo severi con il sorriso baffuto del populismo, mentre imbustate le vostre chianchette di semola rimacinata di grano duro e finocchietto selvatico della Murgia, lì alla cassa del supermarket del cambiamento.

Twitter @masstrovato