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L’ingenuità dei miniBot nel famoso Contratto fra Salvini e Di Maio (li rivedremo?)
L’autore di questo post è uno storico contributor di Econopoly noto su Twitter come Roundmidnight; è consigliere di amministrazione in una istituzione finanziaria oltre che investment advisor –
L’ambizioso “Contratto di governo per il cambiamento”, sottoscritto dai rappresentanti politici della Lega e del Movimento 5 Stelle, mostra come la coalizione che si apprestava a governare aveva un approccio disinvolto verso il ruolo della moneta, di una banca centrale indipendente e i principi di contabilità pubblica, ingenuamente ritenendo che tale tipo di approccio potesse essere risolutivo per il paese.
Come può intuire chi ha letto attentamente il Contratto, ci si riferisce ai cosiddetti “miniBot” e al trattamento del debito pubblico detenuto dalla banca centrale a fini di politica monetaria, nell’attualità per effetto del quantitative easing. In una delle prime versioni del Contratto, veniva ventilata l’ipotesi di chiedere la cancellazione di tale debito, mentre nella versione definitiva ci si limitava a chiederne la non considerazione nello stock complessivo di debito, così da poter sostenere che il debito che compare al numeratore del rapporto debito/PIL sia in realtà ben inferiore a quello ufficiale.
Di tale richiesta mi occuperò in un successivo contributo. Analizziamo ora la proposta di emettere “miniBot” (come tali, identificati dal responsabile economico della Lega, Claudio Borghi Aquilini, con tanto di ipotesi grafica e singoli tagli), sintetizzata a pag. 13, nel paragrafo “Detassazione e semplificazione per famiglie, imprese e partite IVA”. La finalità è la medesima di quella a suo tempo enfaticamente annunciata dal precedente presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, con tanto di giuramento e penitenza, a carico di Bruno Vespa in caso di non avveramento della promessa (“pagheremo tutti i debiti entro San Matteo, 21 settembre 2014 e se lo facciamo lei va a in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario”): pagare i debiti arretrati della pubblica amministrazione verso i fornitori.
Nel contratto, infatti, si legge: “Occorre intervenire per risolvere la questione dei debiti insoluti della pubblica amministrazione nei confronti dei contribuenti, tenuto conto della portata patologica del fenomeno nel nostro Paese e la necessità di una sua ridefinizione in sede europea ai fini degli indicatori statistici”.
Non è chiaro che cosa si intenda quando si evidenzia “la necessità di una sua ridefinizione in sede europea ai fini degli indicatori statistici”. Un debito è un debito e come tale è indicato nei documenti contabili e anche “ai fini degli indicatori statistici”. Per non averlo più basta solo pagarlo e, magicamente, scompare dal conto patrimoniale e dagli indicatori statistici.
C’è, però, un problema di fondo: che per pagarlo occorrono i soldi. E per avere i soldi occorrono che le entrate che nell’esercizio di competenza finanziarono la relativa spesa si materializzino veramente. In altre occasioni, ebbi modo di dire che non è il caso italiano, perché le entrate indicate come finanziamento della spesa non entrano poi per cassa in misura adeguata a sorreggere il livello di spesa pubblica. Tenuto conto che la pressione fiscale è già altissima, appare chiaro che il problema è solo lato spesa. Due facce della stessa medaglia: l’attuale livello di spesa pubblica è significativamente e stabilmente troppo alto rispetto alle somme che realmente entrano per cassa; l’attuale spesa pubblica non è qualitativamente idonea a generare un’adeguata crescita del PIL, del gettito e delle entrate per cassa.
Nella foto: Luigi Di Maio e Matteo Salvini
Per un’analisi più precisa del fenomeno e dei dati, rinvio ai contributi precedenti. In tali contributi, veniva evidenziato che il problema del ritardo nel pagamento dei debiti verso i fornitori è un problema strutturale e non contingente e che anche saldando tutti i debiti arretrati il problema sarebbe nuovamente emerso, visto il permanente squilibrio strutturale tra obbligazioni contratte e riscossione delle entrate.
Vediamo, in sintesi, come avviene e dove sono finiti questi debiti, sempre nell’intesa che i contributi precedenti danno meglio conto della questione.
Ipotizziamo che nel bilancio vi sia solo una posta in entrata (indicata “tasse) ed una in uscita (indicata “fornitori”), pari importo per 50 miliardi.
Nel bilancio preventivo, quindi, si prevede appunto di imporre tasse per 50 miliardi e di acquisire beni/servizi per pari importo. Nel corso dell’esercizio, tali entrate vengono effettivamente accertate (quindi, con il diritto giuridico di pretenderne la riscossione) e le spese vengono impegnate (quindi, con l’obbligo di pagarle).
Il deficit di bilancio è 0 e quel virtuoso numero viene notificato alla Commissione europea. Poniamo, però, che entro l’esercizio di competenza solo 30 di quei 50 miliardi iscritti in entrata si materializzino per cassa. Lo Stato paga 30 miliardi di spese e iscrive il residuo delle due poste nel conto patrimoniale dello Stato, tra le attività (20 miliardi di residui attivi, in sostanza crediti) e tra le passività finanziarie (20 miliardi di residui passivi, in sostanza debiti). Ed è tra tali passività che si trovano, in questo momento, i debiti arretrati verso i fornitori.
Quando, poi, quei crediti origineranno cassa, i relativi debiti saranno pagati e quel deficit “0” avrà trovato esatta conferma. Naturalmente, lo Stato ha modo di non far attendere i creditori: emette titoli di debito (che saranno iscritti al passivo del contro patrimoniale, in sostituzione dei debiti verso i fornitori), ricava cassa e paga i fornitori. Quando poi i crediti origineranno cassa, i titoli troveranno esatta compensazione e il deficit a suo tempo indicato sarà stato veritiero.
Che succede, però, se quei 20 miliardi di crediti non si sostanziano per cassa, in tutto o in parte? Che la spesa deve essere rifinanziata (tassando, emettendo debito) e si ha evidenza che il deficit non era affatto “0” come indicato.
Ovviamente, un certo sfasamento temporale tra impegni di spesa e riscossione delle entrate che li avevano finanziati è fisiologico. Tuttavia, quando il tasso di riscossione delle entrate (soprattutto quelle relative al complesso degli esercizi precedenti) è strutturalmente molto più basso di quello necessario per smaltire i debiti (in conto competenza e residui passivi), il ritardo nei pagamenti si allunga sempre di più.
È intuibile che non vi sia alcun interesse politico a mostrare che il deficit che ogni anno l’Italia comunica alla Commissione europea non è quello effettivo e che il livello di spesa pubblica è troppo alto rispetto alle entrate che realmente entrano per cassa.
Così non fosse, il problema dei debiti arretrati sarebbe facilmente risolvibile: i crediti non più esigibili dovrebbero essere stralciati dall’attivo (fermo l’esperimento delle procedure di riscossione sino alla prescrizione) e la spesa dovrebbe essere reiscritta come passività pregressa nel bilancio di competenza, facendo emergere quel deficit che nell’esercizio di competenza non era emerso. A quel punto, però, la spesa dovrebbe essere (ri)finanziata, via entrate ordinarie o emettendo debito.
Non è escluso che potrebbe essere avviata una trattativa presso la Commissione europea per non incidere sul deficit di competenza, emettendo direttamente titoli di Stato da iscrivere al passivo del contro patrimoniale dello Stato (in sostituzione dei debiti verso i fornitori) e con la cassa ottenuta saldare i debiti. Naturalmente, emettere debito peggiorerebbe il rapporto debito/PIL e aumenterebbe la spesa per interessi, ma non prendere atto della situazione non è una soluzione più praticabile, soprattutto tenuto conto che i ritardi in questione hanno portato al fallimento di numerosissime imprese.
In ogni caso, questo non risolverebbe il problema strutturale, cioè che la spesa pubblica italiana è troppo alta o di cattiva qualità (o entrambe le ipotesi), e quindi in breve tempo si formerebbe di nuovo uno stock di debiti arretrati.
Si può consultare l’ultimo conto patrimoniale dello Stato approvato, quello del 2016, per capire quali siano le grandezze relative: al 31 dicembre 2016, l’Italia aveva ca. 987 miliardi di attività, tra i quali 676 miliardi di attività finanziarie. Quei 676 miliardi, comprendono 343 miliardi di crediti, di cui 212 miliardi di residui attivi.
Alla stessa data, lo Stato aveva circa 2.785 miliardi di passività finanziarie. Dentro questa somma, sono compresi i titoli del debito pubblico, per ca. 1.767 miliardi, debiti di tesoreria, per ca. 610 miliardi, debiti diversi e anticipazioni, per ca. 207 miliardi, e residui passivi, tra i quali i debiti verso i fornitori, per ca. 134 miliardi.
Già ho dato conto, nei contributi sopra richiamati, di quanto quelle attività finanziarie riportate nel conto del patrimonio siano, in realtà, enormemente sovrastimate e, di conseguenza, quanto siano prive di copertura – e quindi da rifinanziare – i debiti esposti nelle passività finanziarie, tra i quali quelli verso i fornitori.
È sufficiente qui riportare quanto esposto dall’amministratore delegato di Equitalia (a suo tempo competente a riscuotere coattivamente le entrate), Ernesto Maria Ruffini, in audizione davanti alle commissione Finanze del Senato, secondo il quale “su 1.058 miliardi di euro di crediti (riferiti non solo al settore statale ma all’intero settore pubblico allargato) da riscuotere affidati a Equitalia tra il 2000 e il 31 dicembre 2015, si può sperare di riscuoterne solo 51”.
Anziché prendere atto del problema e risolverlo con gli strumenti adeguati, la coalizione che si apprestava a governare aveva ideato una soluzione all’italiana: “La cartolarizzazione dei crediti fiscali, anche attraverso strumenti quali titoli di stato di piccolo taglio, anche valutando nelle sedi opportune la definizione stessa di debito pubblico”. Tralasciando l’ultima parte, in quanto, come si è detto, un debito è un debito, qualsiasi sia la sua “definizione”, sorprende la prima parte.
Nella foto: Matteo Salvini con Claudio Borghi Aquilini ad un evento “Basta €uro”
Come sopra si è detto, i debiti arretrati verso i fornitori sono divenuti privi di copertura e hanno, quindi, bisogno di essere nuovamente finanziati.
Prevederne il finanziamento attraverso non mediante le fonti ordinarie ma attraverso l’emissione di un titolo cartaceo con le sembianze e il taglio di una banconota e senza preventiva sottrazione (e successiva distribuzione via spesa pubblica) di moneta (che, sotto il profilo monetario, rende tale un titolo di Stato), è palesemente una fattispecie di monetizzazione della spesa pubblica, a prescindere dal nome utilizzato, il quale è stato scelto proprio per far pensare che l’operazione fosse legittima.
Si tralascia, ora, ogni considerazione sull’ingenuità che la monetizzazione della spesa possa essere una soluzione facile e senza conseguenze. Naturalmente, i politici sono abilissimi nell’infondere e nel rinnovare nell’elettorato la speranza che l’incremento di moneta potrebbe generare un aumento del PIL più che proporzionale, altrimenti sostituendosi il costo per interessi (nel caso della spesa a debito) con il costo derivante dall’aumento dell’inflazione, che è comunque un’altra forma di tassazione. Non è chiaro, però, perché la spesa pubblica che si vorrebbe monetizzare dovrebbe essere più produttiva di quella sinora finanziata a debito (con riferimento della spesa finanziata a debito, si richiama il precedente contributo.
In ogni caso, al di là del nome, i miniBot, non avevano natura di titoli di Stato ma, piuttosto, di moneta e non potevano che essere considerati un espediente per emettere e far circolare una moneta parallela in violazione dei trattati, come, seppur sinteticamente, osservato anche dal Financial Times e da Oliviero Blanchard, Silvia Merler e Jeromin Zettelmeyer in un articolo sul sito del Peterson Institute.
Come si è detto, infatti, è del tutto indifferente che il titolo cartaceo venga utilizzato non per finanziare una spesa di competenza ma per saldare debiti pregressi. Come si è visto, tali debiti non hanno più copertura finanziaria (altrimenti verrebbero pagati) e hanno bisogno di essere rifinanziati. Finanziare una spesa priva di copertura (quindi, dare copertura ad una spesa nel bilancio di competenza) o finanziare una spesa che è divenuta priva di copertura è ovviamente la medesima cosa. Potrà cambiare, al limite, solo il modo (tra quelli legittimi) di finanziarla.
Concettualmente, poi, ogni spesa impegnata (per la quale, cioè, lo Stato assume l’obbligazione di pagare) diventa subito debito. Terminato l’esercizio, tale debito assume la denominazione di residuo passivo ma la sua natura non cambia.
Esaminiamo, comunque, che effetti avrebbe avuto sul bilancio la proposta “cartolarizzazione dei crediti fiscali”. Di fatto, con provvedimento necessariamente legislativo, si sarebbe dovuto consentire la libera circolazione (senza obbligo di accettazione/corso legale) di detti crediti, spezzettati e rappresentati in titoli cartacei, i quali avrebbero potuti essere usati per compensare debiti fiscali verso l’erario.
Nell’equilibrio del bilancio statale, l’operazione sarebbe stata totalmente inutile. Come abbiamo visto, i debiti verso i fornitori sono compresi nelle passività finanziarie del conto del patrimonio. Obbligarsi a ritirare i “miniBot” in conto tasse, significava concedere un “unconditional claim on government” e, quindi, come minimo, sostituire, nel passivo patrimoniale, un debito con un altro debito.
Ma, a parte quello, che impatto avrebbero avuto quei miniBot sul bilancio statale quando sarebbero tornati in conto tasse? Ovviamente, che le relative somme non sarebbero entrate per cassa ma in titoli cartacei e si sarebbe determinato un corrispondente deficit di cassa, da finanziare mediante emissione di titoli di Stato (i quali sarebbero andati a sostituire nel passivo patrimoniale i miniBot).
Tanto valeva emetterli subito, allora. Non è affatto escluso, però, che quel deficit di cassa sarebbe stato colmato attraverso i medesimi miniBot rientrati i quali sarebbero stati girati a fornitori di beni/servizi, individuati magari in quelli con meno forza contrattuale (sulle problematiche legate al minor grado di liquidità di tali strumenti si veda il contributo della Banca d’Italia.
A quel punto, perché porsi limiti di spesa, di deficit e di debito, quando la spesa può essere pagata anche in miniBot? E quale modo migliore per avere un’adeguata base di circolante per favorire la transizione verso l’uscita dall’euro, come prefigurato dagli stessi proponenti?.
Non è chiaro come il relativo provvedimento legislativo avrebbe potuto ottenere il consenso e la firma del Presidente della Repubblica, vista la palese incostituzionalità determinata da plurime violazioni dei trattati europei e il prevedibile parere negativo della BCE, alla quale devono essere preventivamente sottoposte tutte le norme prevedenti ipotesi di strumenti monetari o similmonetari.
Peraltro, l’aspetto dirimente non è l’adempimento dei trattati, i quali, se necessario e con le dovute procedere, potrebbero essere cambiati. È se le misure proposte siano o meno idonee a risolvere i gravi e stratificati problemi del paese. Ed è veramente difficile ritenere che riproporre le medesime ricette di sempre, pur in altra versione, sia una scelta saggia e lungimirante. Se ne riparlerà in autunno, sperando che l’estate porti consiglio.
Twitter @certainregard