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Spread, chi lo manovra? Facciamo un po’ di chiarezza
L’autore di questo post è Francesco Mercadante, analista del linguaggio e analista economico-finanziario. È stato consulente del Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Sicilia e docente di Analisi dei Testi presso l’Università degli Studi di Palermo. È autore di saggi su Linguaggio ed Economia
Ogni qual volta in cui uno scottante tema d’economia incontra i social network, gli utenti diventano, immediatamente e, forse, senza rendersene conto, protagonisti d’una sorta di sanguinosa e frenetica caccia alle streghe: tutti in preda alla smania di mandare a morte un colpevole, che, tuttavia, nella maggior parte dei casi, resta senza volto e impunito. L’ansia da spread di queste ultime settimane ha contribuito parecchio ad aizzare le masse contro l’aggressore occulto, tanto che, alla notizia dei famigerati ‘duecento punti’, s’è assistito a un crescendo di anatemi e invettive.
Secondo alcuni, il balzo dello spread sarebbe il frutto di un complotto ordito dal Bilderberg o dalla finanza massonica contro l’Italia; secondo altri, la causa di tutti i mali sono Renzi e il PD, sebbene non manchino affatto coloro i quali ritengono che l’impennata sia la prova schiacciante dell’avversione al Movimento 5 stelle, come se, in pratica, fosse possibile manovrare a proprio piacimento i parametri di mercato e, per di più, nell’arco di una notte. Tra i numerosi commenti che capita di leggere facendo un normale scrolling su Facebook, uno in particolare ha catturato la mia attenzione, lasciandomi piuttosto basito: “Ma perché non aspettare prima di giudicare?”. In pratica, si chiederebbe una pausa ai mercati per consentire a Lega e M5S di governare? Certo, è strano. È strano che, oggi, non si sia in grado di scrivere su Google “che cos’è lo spread?” per fugare certi dubbi.
Dunque, è bene fare un minimo di chiarezza. Dal momento che firme ben più autorevoli e prestigiose hanno già scritto tanto in merito, tenterò di offrire al lettore una visione oltremodo semplificata, nella speranza di essere ‘utile’ e, nello stesso tempo, non essere bacchettato per eccesso di semplicità.
Che cos’è lo spread?
Dato che la spiegazione reale è molto articolata e complessa, mi propongo un approccio didattico, facendo qualche passo indietro rispetto al nostro focus. Cominciamo col dire che, quando uno stato o un’azienda hanno bisogno di denaro per rispondere a un proprio ‘fabbisogno di cassa’, possono ricorrere a un tipo di prestito che differisce un po’ da quello comunemente inteso, cosicché si rivolgono a tutti coloro che liberamente vogliano fare un certo investimento. In che modo? Nella sostanza, essi emettono delle obbligazioni, che, una volta acquistate, garantiscono all’acquirente una percentuale d’interesse come rendimento alla scadenza (trimestrale, semestrale, annuale, decennale et cetera). Nel caso dei Buoni Poliennali del Tesoro che riguardano il tormentoso argomento dello spread, l’unità di rendimento o scadenza è il decennio: BTp a 10 anni. Di conseguenza, lo stato contrae un debito nei confronti degli investitori e ogni debito, com’è noto, dev’essere rimborsato. E inoltre, ogni prestito è legato a un tasso d’interesse che ne determina il ripianamento.
A cosa serve la ‘liquidità’ che lo stato ottiene dal collocamento dei propri titoli?
Ciò che lo stato ricava dall’emissione obbligazionaria è necessario a coprire la spesa pubblica o, meglio, a far fronte a tutte quelle esigenze economiche dirette che non sono state coperte con le entrate derivanti dal gettito fiscale. Qui, entra in gioco un altro elemento decisivo, il disavanzo o deficit pubblico: se le uscite sono superiori alle entrate, è evidente che, o per politiche economiche sbagliate o per eventi imprevisti e circostanze congiunturali, il Ministero dell’Economia e delle Finanze deve ricorrere allo strumento obbligazionario di cui finora abbiamo parlato. Tuttavia, è bene precisare, a scanso d’equivoci, che tanto più alto è il rendimento di un titolo, italiano o tedesco che sia, quanto maggiore è il debito del paese emittente. In altre parole, quando si sente parlare di debito sovrano, si fa esplicitamente riferimento a questo, benché il concetto di sovranità sia alquanto discutibile.
La contrattazione sui mercati – si badi bene – è libera, incondizionata e, spesso, per certi aspetti, anche imprevedibile. Prevale la legge della quantità, non quella della logica. Che vuol dire? Per paradosso, se la relazione trimestrale di un’azienda X quotata è negativa, ma un elevato numero d’investitori decide, per un motivo ignoto, di premiarla lo stesso, allora il valore delle azioni dell’azienda X salirà. È chiaro che non stiamo sostenendo la tesi della totale irrazionalità dei mercati. Si vuole solo dare una misura del rischio che il mercato stesso comporta.
Qual è il criterio mediante il quale si stimano i titoli di uno stato?
In questo caso, la risposta è semplice. Se lo stato è giudicato affidabile e si pensa che la sua ‘contabilità’ sia regolare, allora le obbligazioni sono considerate sicure e l’interesse di collocamento sarà basso con conseguente riduzione del debito. Viceversa, se lo stato è giudicato inaffidabile, l’acquisto dei suoi titoli sarà considerato rischioso in prospettiva d’un possibile default (o insolvenza), che, in parole povere, si traduce nel timore che esso non paghi il proprio debito. Quindi, quando un rappresentante di un governo si abbandona a dichiarazioni ambigue e soprattutto propone manovre finanziarie in assenza di coperture (flat tax, moneta fiscale o reddito di cittadinanza, vogliamo parlarne?), gli investitori cominciano a dubitare dell’affidabilità del paese in questione e rinunciano ad acquistare i suoi titoli. Di conseguenza, lo stato, che deve venderli, a tutti i costi, come si suol dire, è costretto a garantire rendimenti sempre più alti, indebitandosi notevolmente.
Ciò non esclude che si possano rispettare gli impegni presi coi propri elettori e rimettere i conti in ordine, per carità! Ma, stando ai fatti, certe uscite incongrue degli ultimi giorni avevano fatto pensare per lo meno a un po’ di faciloneria. Allo stesso modo, non si vuole assolvere e consacrare l’operato del governo precedente. Insomma, si tratta solo di un invito alla presa di coscienza. Non si può trattare con superficialità l’argomento, fomentando agitazione populistica con frasi come “non siamo schiavi dell’Europa né dello spread”… anzitutto perché sarebbe un errore scientifico.
Perché si fa continuamente e ossessivamente riferimento alla Germania e ai suoi bund?
Lo si fa unicamente perché i bund sono ormai considerati i più affidabili tra i titoli, con basso rendimento e così sicuri da assurgere quasi a ‘bene rifugio’ e, di conseguenza, si prendono a modello o unità di misura, come dir si voglia. Lo spread è allora la misura della differenza tra il rendimento dei titoli più sicuri e il rendimento dei titoli meno sicuri. Se, com’è accaduto in questi giorni, i BTp Italia a 10 anni fanno registrare un 2,47%, mentre i Bund Germania a 10 anni si attestano sullo 0,41%, allora la differenza è fissata in 206 punti.
Il collocamento più volte citato avviene per mezzo di un’asta, alla quale la Banca d’Italia ammette in prima istanza solamente degli investitori autorizzati (per lo più, banche e SIM), i quali fanno le proprie offerte sulla base di dati tecnici e rumors, non certo per fare un dispetto a Renzi o Conte o chi per loro. Il prezzo, infatti, viene fissato solo dopo che tutte le offerte sono state raccolte ed elaborate secondo il criterio dei valori decrescenti.
In conclusione, è bene precisare che col termine spread non ci si riferisce solo ed esclusivamente al differenziale già illustrato. Nei mercati azionari, per esempio, ogni giorno si svolgono operazioni di compravendita mediante asta, pertanto anche la differenza tra ask price, cioè il prezzo formulato da un venditore, e bid price, vale a dire il prezzo formulato dai compratori, determina uno spread. Nell’ambito delle operazioni a tutti noi più vicine, le banche acquistano il denaro dalle banche centrali e lo rivendono proprio applicando uno spread. In effetti, il suo significato non è univoco ed è probabile che spesso se ne sia fatto un uso strumentale, ma ciò non deve indurre il lettore a credere che sia una cosa da poco o di cui ci si possa disinteressare.
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