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Vivi (e in salute) quasi per sempre, che grande affare l’industria della longevità
Sapevamo per certo di dover morire e pagare le tasse. Il XXI secolo ci ha regalato un’altra certezza: diventeremo sempre più vecchi. Chiunque ci scommettesse sopra vincerebbe. Tutte le proiezioni demografiche, soprattutto nei paesi più ricchi, disegnano società popolate da anziani divenuti ormai maggioranza relativa, con i giovani (sempre meno) a doversene far carico, sostenendo con il loro lavoro sistemi previdenziali e sanitari che rischiano di esplodere sotto la pressione del silver tsunami, come lo chiama un consorzio di ricercatori che di recente ha pubblicato un’analisi molto istruttiva su quella che è stata definita l’industria della longevità.
Appunto perché è una scommessa che si vince facilmente, quella sul futuro delle società occidentali ha già attratto una legione di amanti del rischio che da diversi anni investono più o meno massicciamente su una serie di prodotti e servizi che spaziano dalla medicina alla finanza e che hanno in comune un pensiero molto semplice: far corrispondere all’allungamento della vita un aumento degli anni in cui si vive in salute. Ciò allo scopo di favorire una profonda riconfigurazione non solo dei sistemi sanitari, ma anche di quelli finanziari, passando dai mercati del lavoro, che certo non rimarranno indenni dagli effetti del silver tsunami. Per dare un’idea di quanto sia popolata l’industria della longevità, non c’è nulla di meglio di questo colpo d’occhio.
La gran parte di questi operatori hanno a che fare con la ricerca genetica. Aziende di confine, in gran parte startup, che ibridano spregiudicatamente gli ultimi ritrovati delle biotecnologie con le tecnologie informatiche più avanzate, dall’intelligenza artificiale alle blockchain per servire il sogno più antico e riverito dell’uomo: la vita eterna. O almeno una sua ragionevole interpretazione. All’elisir di lunga vita, che già i sumeri celebrarono nel mito di Gilgamesh, si è sostituita la scienza, ma il sogno è rimasto intatto e anzi vuole diventare realtà, potendo contare su notevoli risorse finanziarie e parecchie intelligenze.
La nascita dell’industria della longevità merita di essere raccontata, se non altro perché segnerà il nostro futuro assai più del presente. Diverse circostanze cospirano per questo esito. La demografia, intanto: il silver tsunami è praticamente una certezza. E poi il progresso tecnologico, che tale demografia ha favorito e che adesso chiede il conto. Vivere di più, infatti, non avrebbe senso, esistenziale né economico, se alla longevità non corrispondesse la salute. Nessuno vuole vivere a lungo in malattia o in sofferenza. Per questo la scommessa dell’industria della longevità, per vincere la quale sono state mobilitate tante risorse, è quella di allungare la vita, ma in salute, potendo rimanere quindi anche produttivi e perciò remunerativi.
Questo intento è rimasto confinato nello spazio dei sogni a lungo. Le geroscienze sono state considerate una branca minore della medicina sin dagli anni ’40 del XX secolo, quando iniziò la ricerca genetica, e così rimase per diversi decenni. La ricerca scientifica, aveva già fatto importanti passi in avanti, ma solo di recente la tecnologia è stata in grado di far corrispondere alla teoria alcune realizzazioni pratiche , immaginando terapie basate sulla rigenerazione cellulare. Ma siamo praticamente già ai giorni nostri. Il 2013 vede il primo colosso hi-tech investire in grande stile sulle biotecnologie. L’idea venne a Google, che quell’anno presentò Calico, un acronimo che sta per California Live company, una società espressamente dedicata all’allungamento della vita umana grazie allo sviluppo della tecnologia. L’avvento di Google dette un’improvvisa aria di ragionevolezza a un obiettivo fino ad allora confinato nelle frange più visionarie delle aziende biotecnologiche. La copertina di Time del settembre 2013 rende bene la portata dell’evento.
La morte come problema da risolvere è una esemplare sintesi giornalistica del retropensiero inconfessabile di queste tecnologie. L’anno successivo, il 2014, viene considerato quello in cui l’industria della longevità esce dalla fase puberale della ricerca scientifica astratta, per entrare in quella adulta del business concreto. Quell’anno fu istituito il Palo Alto Longevity Prize e molti scienziati iniziarono a guardare con occhi molto diversi alla geroscienza, improvvisamente divenuta una cosa “seria”. Un anno dopo la fondazione di Calico, la società annunciò una partnership con AbbVie, una multinazionale biofarmaceutica, per la costruzione di un centro di ricerca e sviluppo sul quale investire 500 milioni di dollari e poco dopo annunciò una partnership con UT Southwestern Medical center per sviluppare attivatori per i disturbi neurovegetativi.
Il sogno dell’industria della longevità inizia ad avverarsi. Il panorama si popola di aziende sempre più vocate alla realizzazione di prodotti e servizi. Non per caso, ovviamente. Già un anno prima di Calico, nel 2012 la Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency), ossia l’agenzia governativa che sviluppa tecnologie a uso militare, celebre per essere stata la mamma di Internet negli anni ’60, aveva assunto come CEO una manager dal venture capital specializzata in compagnie che operavano nella ricerca medica e nei servizi medici sviluppati su base IT. Un segnale molto chiaro dell’interesse crescente che anche i poteri pubblici iniziavano a coltivare per un’industria ancora alquanto esotica. E interesse pubblico vuol dire innanzitutto finanziamenti.
Sempre nel 2014 si svolse la prima Rejuvenation Biotechnology conference a
Santa Clara, in California, il primo meeting focalizzato sulla longevità e le biotecnologie ad essa correlate, alla quale parteciparono oltre 350 fra ricercatori, accademici, esponenti dell’industria farmaceutica, regolatori pubblici e venture capitalist. La promessa di un’industria comincia sempre con una comunità che condivide un interesse. E quanto più questa comunità si ingrandisce, tanto più è capace di attrarre l’interesse di altri, anche fra coloro che fino ad allora erano rimasti scettici. Nel 2015 si assiste a un piccolo boom delle industrie biotech, cui ne seguì un altro nel 2017 guidato dagli investimenti sulla medicina per la longevità. Un boom probabilmente esagerato, come sempre accade, tanto è vero che l’indice di settore (NASDAQ Biotechnology) perse circa il 37% dal picco raggiunto a luglio del 2015 riportandosi a un livello pari all’inizio del 2014. L’anno successivo ci fu una ripresa dei corsi e poi di nuovo una correzione. Nel 2017 si è assistito di nuovo a un rinnovato interesse degli investitori. L’industria della longevità, insomma, è entrata a pieno titolo nel gioco dell’economia globale, riuscendo nello spazio di pochi anni a ritagliarsi una nicchia di mercato popolata insieme da piccole aziende e grandi colossi con i nomi più conosciuti della rivoluzione hi tech del nostro tempo.
Nel biennio 2016-17 il business della medicina rigenerativa, il nome moderno dell’eterna giovinezza, diventa molto concreto. I venture capitalist, secondo un report di Goldman Sachs, vi avevano investito oltre 800 milioni nel 2016, quattro volte in più rispetto al 2011 con una crescita annua del 34%. “Questi trattamenti – spiega il report – se funzionano possono rivoluzionare il modo in cui invecchiamo, aiutando potenzialmente gli esseri umani a vivere più a lungo e più in salute”. Di sicuro funzionano benissimo per chi ci investe e ci fa affari. Nel 2016 il tema della longevità sbarca anche al forum di Davos, quindi nel tempio del moderno capitalismo. Esce anche un libro che fa un certo scalpore, The Ageless generation, che vuole illustrare come i progressi nella biomedicina cambieranno l’economia globale. L’autore è uno scienziato Alex Zhavoronkov che al culmine dell’entusiasmo fa una scommessa con un capitalista di ventura, Dmitry Kaminskiy, mettendo sul tavolo un milione di dollari che incasserà chi sopravviverà all’altro. Poco dopo, sempre Kaminskiy, promette un milione di dollari al primo uomo o donna che arriverà a compiere 123 anni, superando il corrente record di longevità. Che potrà farsene di un milione di dollari una persona di 123 anni è una domanda che probabilmente si faranno in pochi.
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