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Quattro miti da sfatare dell’economia post-industriale (teniamoci strette le fabbriche)
Dalla metà degli anni ‘90, più o meno coincidente con l’esplosione della tecnologia web e di internet, la vulgata economica presentata alla pubblica opinione è stata che i paesi avanzati erano entrati in una fase economica post-industriale.
La struttura del lavoro stesso era cambiata: il terziario avanzato sarebbe stato il destino obbligato, se non nostro, dei nostri figli, e tutti i paradigmi economici e sociali in cui credevamo, e con cui anche avevamo imparato a convivere, dovevano essere buttati nel cestino. Un mondo nuovo ci attendeva, irto di difficoltà, ma anche di opportunità, termine che non fu mai così tanto abusato.
Passato un quarto di secolo molte delle visioni proposte in quegli anni e nei seguenti si sono rivelate almeno in parte fallaci.
Dove sognavamo il telelavoro in un’azienda di terziario avanzato ci ritroviamo i ciclisti che consegnano pasti. Invece delle macchine volanti abbiamo i tassisti part time di Uber. Le dotcom che rimangono ancora sulla cresta dell’onda sono alla fine un produttore di hardware come Apple ed un campione di vendite retail come Amazon. Facebook rimane l’unica notevole eccezione.
Gli economisti accademici negli ultimi anni si stanno scervellando per capire come mai, nonostante le innovazioni tecnologiche del web e dei computer, nei paesi sviluppati la produttività sembra al contrario rallentare se non stagnare.
È stato quindi con estremo interesse che ho ascoltato la conferenza tenuta dall’economista di Cambridge Ha-Joon Chang, presso l’Università di York, dal titolo “Manufacturing Matters – The Myth of Post-industrial Knowledge Economy”.
Seguendo idee e concetti già espressi nei suoi controversi libri, partendo da “Kicking Away the Ladder” del 2003 fino a “23 Things They Don’t Tell You About Capitalism” del 2011, Chang provvede a smontare passo dopo passo alcuni miti del mainstream economico-informativo.
Primo Mito:
“Nei paesi sviluppati l’industria manifatturiera, un tempo forza propulsiva del capitalismo, non è più così importante.”
Questa affermazione non è completamente un mito in termine di percentuali di occupati sul totale.
Si è passati dal 40% degli anni ‘70 dei paesi a forte industrializzazione ad una media nei paesi sviluppati del 15%. E se in paesi come la Germania sono ancora attorno al 20%, in USA, UK, Olanda siamo sotto al 10%.
Questo calo proporzionale degli occupati ha in effetti cambiato la società. Siamo a tutti gli effetti diventati società post-industriali, con persone che lavorano in modo differente rispetto ai loro genitori o nonni e con rapporti fra gli stessi lavoratori completamente diversi che nel passato.
Se spostiamo però l’attenzione sulla produzione, è vero che anche il PIL del settore manifatturiero oggi è calato, in media nel mondo dal 25% al 15%, ma è un’illusione ottica.
Dai dati statistici sembra che consumiamo sempre più servizi e sempre meno beni materiali, ma in realtà non ne abbiamo mai consumati così tanti.
Questo è l’effetto dei progressi della tecnologia e della relativa produttività del settore manifatturiero, che oggi ci consente di produrre più beni a minor costo usando meno forza lavoro.
Da questo ragionamento arriviamo al
Secondo Mito:
“La Deindustrializzazione è desiderabile?”
Per anni ci è stato detto che il progresso sarebbe stata una crescita sempre più grande del settore dei servizi, come a suo tempo il settore industriale aveva scalzato quello agricolo. Ciò avrebbe assicurato maggiore benessere con meno fatica, l’eterno obiettivo dell’uomo di ogni epoca.
Ma il problema è che mentre la famosa fabbrica di spilli di Adam Smith è diventata nel tempo 1000 volte più efficiente, la maggior parte dei servizi non hanno visto nel tempo un eguale fenomeno.
Certo alcuni sono sicuramente oggi molto più efficienti rispetto al passato grazie alla diffusione e all’evoluzione dell’informatica e del digitale e nuove tecniche organizzative, spesso mutuate dal settore manifatturiero stesso; Chang fa l’esempio di McDonald’s, ma in media il trend della produttività è rimasto sempre più basso.
Un taglio di capelli rimane un taglio di capelli, e in generale, pur con tutte le tecnologie oggi disponibili, i servizi dove il lavoro umano rimane fondamentale hanno avuto incrementi di produttività limitati e raggiunti spesso tramite la compressione dei salari, quindi difficilmente ripetibili nel tempo con la stessa intensità, ma anzi soggetti ad erosione progressiva, oppure attraverso una “diluizione“ del servizio.
Questo vuol dire che il settore manifatturiero, dove la meccanizzazione e l’uso delle tecnologie è più semplice, rimane ancora il settore dove c’è più potenziale per ulteriori forti aumenti di produttività mentre nel settore dei servizi, per la stessa natura degli stessi, tende ad essere più lento o addirittura stagnante. Per chiarire ulteriormente, Chang fa l’esempio di due economie altamente produttive e che comunemente pensiamo basate sul loro settore dei servizi, Svizzera e Singapore, e ci mostra come in realtà esse hanno il valore aggiunto per addetto più alto al mondo proprio, invece, nel settore manifatturiero.
Terzo Mito:
“Perché Preoccuparsi della Deindustrializzazione?”
Se i processi di deindustrializzazione sono dovuti soprattutto alla maggiore efficienza dei processi di produzione, perché dobbiamo preoccuparci?
Chang dice che un paese deve stare attento alla competitività del suo settore manifatturiero perché se questo non è competitivo rispetto alle sue controparti internazionali, tenderà a ridursi per via della concorrenza e, pur inefficiente che sia se comparato all’estero, solitamente rimane comunque quello più dinamico della sua economia.
Un’eccessiva diminuzione del settore manifatturiero può quindi portare seri problemi di crescita, in quanto il settore dei servizi è incapace di supplire con aumenti di produttività sufficienti. Inoltre mentre la domanda per beni materiali ha continuato a crescere a livello mondiale, la percentuale di servizi sul totale del commercio estero è stagnante sul 20% circa da 20 anni.
Una deindustrializzazione “negativa”, cioè dovuta a un indebolimento della sua competitività internazionale, rende di conseguenza il paese incapace di finanziare con le esportazioni di servizi le importazioni di beni materiali, creando seri problemi alla bilancia dei pagamenti e portando ad un progressivo indebitamento verso l’estero.
Questo è quello che è successo nell’Eurozona, dove molte economie, compresa la nostra, pur in modi e con intensità differenti, hanno visto una crescita abnorme dei servizi e dei beni “not tradable” (come l’immobiliare, ad esempio), grazie alla improvvisa disponibilità di capitali data dalla liberalizzazione finanziaria prima e dalla moneta unica dopo, che ha portato ad un rallentamento della produttività complessiva ed alla crisi del 2011 che ancora condiziona le nostre vite.
Vediamo infatti come oggi stiamo cercando di avere la bilancia dei pagamenti sempre in attivo, anche a costo di tenere compressi i consumi interni, e di come il nostro manifatturiero stia sempre più tendendo ai mercati esteri per riuscire a mantenere livelli di redditività adeguati.
Quarto Mito:
L’Economia della Conoscenza
Secondo Chang abbiamo sempre vissuto in una “economia della conoscenza”, che non è altro che una superiore conoscenza produttiva legata principalmente al settore manifatturiero, sotto forma di tecnologie e tecniche organizzative.
Gli stessi servizi “knowledge intensive”, come la finanza, l’ingegneria o il design, hanno come committente finale il settore industriale e quindi dipendono da esso per il loro successo. Anche nei casi in cui si sia riusciti ad esportare con successo tali servizi, si pensi al Regno Unito, il miglioramento della qualità e dell’efficienza li porterà sempre più vicini, anche materialmente, ai loro clienti finali, uscendo quindi dai confini nazionali, oppure perderanno competitività rispetto ai loro competitor esteri.
Vi ricordate la frase “Se la Cina è l’officina del mondo l’India ne sarà l’ufficio”? Anche l’India, portata ad esempio come caso di successo di specializzazione nel commercio estero di servizi, è in realtà un altro mito.
In realtà, nonostante la delocalizzazione di tanti servizi, soprattutto dal mondo anglosassone per la vicinanza linguistica, i relativi flussi di esportazione hanno coperto tra il 2008 ed il 2016 solo il 14% del deficit commerciale di beni verso l’estero, quindi ovviamente non può essere un modello di sviluppo economico sostenibile per il futuro.
Conclusioni
Finché il settore dei servizi sarà basato sul fattore umano, i suoi aumenti di produttività e il potenziale di crescita che può offrire ad un paese saranno sempre minori di quelli del settore manifatturiero.
Magari un domani, con auto ed aerei che si guidano da soli, droni che consegnano pacchi sulla soglia di casa fino ad arrivare ai robot asimoviani dal cervello positronico, questo paradigma potrà essere superato.
Ma oggi teniamoci strette le nostre fabbriche. È ancora lì che Chang dice che si sta producendo il nostro futuro benessere.
Twitter @AleGuerani