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C’erano una volta i campionati di calcio (e come ci si è arrivati)
Co-autore di questo post è Fausto Panunzi, professore di Economia all’Università Bocconi; ha conseguito un PhD in Economia al MIT; è Fellow del Center for Economic Policy Research e dell’European Corporate Governance Institute ed è membro della redazione de lavoce.info –
In un recente articolo intitolato “Salvare il centro in contrazione”, il Chief Economic Adviser di Allianz, Mohamed A. El-Erian, scrive: “Anche lo sport sta perdendo il suo centro. In assenza di meccanismi di perequazione forzata (come quelli utilizzati nella National Football League degli Stati Uniti), il calcio europeo è oggi dominato da una manciata di squadre che sono diventate colossi imprenditoriali”.
Confrontando la classifica Deloitte Football Money League (che ordina i club europei secondo i loro ricavi) del 2016-17 con quella di 10 anni prima si possono fare due osservazioni. La prima è che tra i primi 10 club della scorsa stagione, ben 6 erano nella top ten anche 10 anni prima (forse sorprendentemente, tre dei club usciti dai primi 10 sono italiani: Inter, Milan e Roma). La seconda è l’esplosione dei fatturati: nel 2006-07, al primo posto dei ricavi c’era il Real Madrid con circa 351 milioni di euro e al decimo la Roma con 157 milioni. Lo scorso anno al primo posto c’era il Manchester United con 673 milioni di euro e al decimo posto la Juventus con 405 milioni. Eppure chi non è più giovanissimo, come noi, ricorda un calcio quasi artigianale a livello di gestione economica. Dagli anni ’70 a oggi il mondo del calcio ha vissuto una rivoluzione che ha cambiato completamente il modello di business, moltiplicando sia i costi che i ricavi. Iniziamo dal lato dei costi.
DAL VINCOLO AL LIBERO MERCATO DEI CALCIATORI
Quando il 4 luglio 1978 i carabinieri fecero irruzione nell’Hotel Leonardo da Vinci di Milano, sede ufficiale del Calcio Mercato, mandati dal pretore Costagliola su esposto dell’avvocato Campana, presidente dell’Associazione Calciatori, si chiuse un’epoca. L’esposto era infatti basato sulla giurisprudenza che dal dopoguerra fino a quel momento, considerava i calciatori come lavoratori subordinati, seppur atipici, delle varie società sportive.
Questo rapporto giuridico che veniva chiamato comunemente “vincolo sportivo” in pratica legava indissolubilmente i calciatori alle società, le quali erano le uniche che potevano disporre delle prestazioni sportive del calciatore oppure cederle dietro corrispettivo monetario ad altre società, anche senza il suo consenso. Inoltre, Il calciatore non poteva rifiutare il trasferimento e, fino al 1974, non aveva neppure la disponibilità dei suoi diritti di immagine.
Ciò dava un enorme potere ai club.
L’emblema di questo potere era la classica visita di Boniperti, all’epoca presidente della Juve, che nei primi giorni del ritiro a Villar Perosa, andava a incontrare la squadra e in una mattinata chiudeva tutti i contratti.
A seguito dell’intervento della magistratura fu elaborata in parlamento una legge, la n. 91/1981, che eliminava il vincolo e normava il rapporto subordinato come speciale e fra l’altro lo rendeva soggetto ad una durata contrattuale massima di cinque anni, ovviamente rinnovabili.
Negli anni successivi furono stabiliti contratti tipo, minimi contrattuali e altre disposizioni volte a migliorare il trattamento economico e normativo dei calciatori professionisti. Nel 1982, dopo la vittoria ai Mondiali di Spagna, per la prima volta alcuni calciatori juventini (Tardelli, Gentile e Paolo Rossi) rifiutarono di firmare il contratto con la cifra già indicata da Boniperti (e furono messi momentaneamente fuori squadra). Alla fine però la Juventus capitolò e accettò sostanzialmente le richieste dei calciatori.
Un’epoca stava finendo.
Ma il vero spartiacque fu nel 1995 con la famosa “sentenza Bosman” che portò all’emanazione di nuove regole UEFA in base alla quali i calciatori dell’Unione europea potevano trasferirsi gratuitamente, alla scadenza del contratto, in un altro club purché facente parte di uno Stato dell’UE. Anche i limiti numerici per i calciatori stranieri con passaporto di un paese UE vennero a decadere in base alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea. La successiva sentenza Webster del 2006 ampliò la precedente sentenza Bosman permettendo anche a giocatori ancora sotto contratto, fuori del periodo di protezione di 3 anni, di potersi svincolare dietro pagamento di un indennizzo alla squadra proprietaria del cartellino.
Il cerchio si era chiuso.
La forza contrattuale era passata dalle società calcistiche ai calciatori, quelli appetibili naturalmente, e ai loro agenti, alcuni dei quali iniziarono ad avere una propria notorietà mediatica. La lievitazione dei costi era a quel punto inevitabile.
UN NUOVO MODELLO DI CALCIO
Per fortuna delle società calcistiche, cambiamenti rilevanti erano in atto anche sul fronte delle entrate. Un primo esempio risale al 26 agosto 1979. Il Perugia, che aveva appena ingaggiato Paolo Rossi, scese in campo nel primo turno di Coppa Italia con la prima maglia sponsorizzata, grazie a un sotterfugio. All’epoca, l’unico logo ammesso sulla maglia era quello dello sponsor tecnico. La Pasta Ponte decise di creare una linea sportiva solo per poter mettere il suo marchio sulla maglia della squadra.
Ma la vera rivoluzione si deve alle televisioni. Negli anni ’70 la Rai era l’unico acquirente del prodotto calcio. I primi gol si vedevano a 90° Minuto, qualche ora dopo la fine delle partite e poco prima di cena si poteva vedere un tempo della partita più importante della giornata. La nascita delle emittenti private cambia tutto. La Premier League nasce proprio per sfruttare la disponibilità delle televisioni a pagare per trasmettere in diretta alcune partite. La partnership con Sky cambia per sempre la fisionomia del calcio britannico.
Sempre secondo la Deloitte Football Money League, nell’ultima stagione, il 45% dei ricavi delle prime 20 squadre europee è legato ai diritti televisivi, il 38% alle attività commerciali (merchandising, sponsorizzazioni) e solo il 17% al botteghino. Per la Juventus, primo club italiano in classifica, il peso dei diritti televisivi sul fatturato raggiunge il 58% e il botteghino pesa solo per il 14%.
La lievitazione di costi e ricavi ha avuto un effetto asimmetrico su società piccole e grandi, aumentando la dominanza dei club più forti. Le televisioni sono ovviamente maggiormente interessate a trasmettere Juventus-Inter che Bologna-Torino (squadre, queste ultime, scelte non a caso). Maggiori entrate permettono di acquistare giocatori migliori. La dominanza economica e sportiva dei grandi club si rafforza.
Il problema è che un’eccessiva divaricazione dei budget delle società rischia di impattare sull’interesse complessivo dei campionati. Quest’anno il Benevento, ha perso 27 delle 33 partite disputate sinora. La scorsa stagione il Pescara perse 27 partite su 38. In alcuni casi le cose sono andate ancora peggio, con il fallimento di società in piazze storiche e con bacini di pubblico non del tutto irrilevanti come Vicenza o Modena, giusto per ricordare i casi più recenti.
L’ipertrofica offerta televisiva ha portato anche a una forte contrazione di pubblico del calcio dilettantistico e, di conseguenza, di interesse degli sponsor. Le inevitabili difficoltà finanziarie hanno reso complicato persino completare i tabelloni delle varie serie dilettanti, con società sportive non in grado di iscriversi o che cessano l’attività nel corso del campionato.
UNA NUOVA SPERANZA?
Nel nuovo ambiente economico calcistico si sono anche visti alcuni casi di successo, di adattamento alle mutate condizioni del mercato. Alcune società sono riuscite a trovare un modello di business che ha consentito loro di sopravvivere anche senza avere alle spalle un importante bacino di pubblico e di tifosi.
Ad esempio, la famiglia Pozzo, proprietaria dell’Udinese, ha attuato una politica finalizzata a scoprire, tramite un’efficiente rete di scouting attiva in tutto il mondo, talenti da valorizzare e poi cedere alle squadre maggiori. Negli ultimi trent’anni tale politica ha portato a realizzare plusvalenze per un totale di 650 milioni di euro.
La famiglia Pozzo non si è limitata alla gestione dell’Udinese. Nel 2009 ha acquisito il Granada, all’epoca squadra della terza serie spagnola, lo ha risanato e, grazie anche all’utilizzo in prestito di giocatori della società madre, portato fino alla prima divisione per poi cederlo nel 2016 al colosso cinese Desport. Analoga operazione è stata effettuata con l’acquisizione del Watford, quando militava in Championship, la seconda serie inglese, e promossa in Premier League nel 2015. Da allora, malgrado risultati sportivi non eccelsi, il Watford ha visto il fatturato passare dai 18 milioni di sterline del bilancio 2015 ai 94 milioni nel 2016, il doppio del fatturato dell’Udinese stessa.
La scoperta e la valorizzazione dei giovani talenti sembra essere, al momento, una strada obbligata per le società medio-piccole, in presenza, almeno in Italia, di una distribuzione dei diritti televisivi che premia solo marginalmente il risultato sportivo, rendendo non conveniente investire nella squadra se non con l’obiettivo di qualificarsi per la Champions League, vero spartiacque economico.
Dobbiamo allora rassegnarci alla creazione di una Lega europea riservata alle grandi, di cui si vagheggia ogni tanto? Cosa può essere fatto per ridurre i crescenti squilibri finanziari tra i club?
Come ricordava El-Erian nella frase citata all’inizio, una possibilità è quella di introdurre un salary cap, cioè un tetto per gli stipendi dei calciatori. Ovviamente tale proposta incontrerà l’opposizione dei club più potenti, così come proposte analoghe di contenimento della spesa in Formula 1 sono osteggiate da Ferrari e Mercedes. Il Financial Fair Play, introdotto dall’Uefa nel 2009 con la finalità di legare i costi ai ricavi, sta mostrando limiti non trascurabili, con sponsorizzazioni fuori da ogni logica di mercato usate per aggirare i suoi paletti.
La divisione dei diritti televisivi diventerà sempre più decisiva mentre a nostro avviso è improbabile che i club più piccoli riescano a ricevere grandi benefici dagli stadi di proprietà. Insomma, non basterà far parlare il campo: la politica sportiva giocherà un ruolo decisivo nel futuro del calcio. E tra interessi forti e poteri deboli non c’è da essere ottimisti.
Twitter @AleGuerani @FPanunzi