categoria: Res Publica
Rilanciare la produttività, ecco la sfida chiave della nuova legislatura
Dopo qualche settimana di silenzio da elezioni, ricominciamo a parlare di produttività. Una parola che, forse a causa di strumentalizzazioni o errori dell’oramai ex-establishment, alle orecchie del lettore sembra spesso sinistra, come fosse un richiamo coercitivo a lavorare di più, quando invece rappresenta l’esatto contrario: la capacità di ognuno di noi di valorizzare le proprie competenze, il proprio impegno, il proprio lavoro. La produttività di un paese è non a caso fortemente correlata al livello dei salari, allo sviluppo culturale, alla mobilità sociale. A che punto siamo in questo senso in Italia? Cosa è stato fatto e dove servirebbe, a nostro avviso, intervenire?
La situazione nel nostro Paese
Il recente rapporto ISTAT sulla competitività dei settori contiene una fotografia in chiaroscuro della nostra economia. Da 30 anni il nostro Paese è in uno stato di transizione, con una produttività stagnante ed un reddito pro-capite che è addirittura diminuito nei primi 15 anni del nuovo millennio. Non mancano tuttavia i segnali di ripresa: sia sotto la spinta della ripresa globale che della “selezione naturale” operata dalla crisi, una parte delle nostre imprese si rivelano sempre più competitive, propense ad esportare e a creare lavoro stabile. Il rapporto evidenzia infatti come in Italia si consolidi la crescita dei consumi e degli investimenti, seppur in ritardo ed in maniera più limitata rispetto agli altri pesi europei, e come l’occupazione cresca lentamente con il Jobs Act che sembra aver favorito assunzioni e licenziamenti in misura simile. Dall’altro lato però è sopratutto nelle imprese più grandi e in grado di innovare che l’occupazione è aumentata maggiormente, specialmente grazie al contributo del nuovo contratto a tutele crescenti. Già due volte abbiamo distinto tra l’economia italiana ed una parte delle nostre imprese: dal rapporto emerge infatti una forte polarizzazione del nostro sistema produttivo, con imprese mediamente più grandi, geograficamente concentrate nei grandi centri produttivi e focalizzate sull’export da un lato e ampi settori più stagnanti e frammentati dall’altro.
L’eterogeneità nella performance economica d’imprese diverse non è di per sé un ostacolo alla crescita della produttività aggregata. L’aspetto cruciale che permette al sistema economico di beneficiare di questa varietà è l’efficacia delle dinamiche riallocative interne al mercato, cioè la capacità delle imprese più efficienti di guadagnare quote di mercato ed attrarre lavoratori, potendo praticare prezzi più competitivi ed offrire salari relativamente più alti.
Diversi fattori possono rallentare questo processo, dalle inefficienze del sistema bancario alle rigidità del mercato del lavoro. Misurare l’efficacia delle dinamiche riallocative può aiutare a capire se l’eterogeneità nelle performance delle imprese possa tradursi in un motore di crescita o se sia destinata a una polarizzazione più statica. Il grafico seguente mostra una misura di questo effetto (c.d. “Foster covariance term”), calcolata come una sorta di correlazione tra variazioni nelle quote di mercato e nei livelli di produttività: quanto più queste variazioni tendono ad andare nella stessa direzione, tanto più il meccanismo allocativo del mercato funziona in modo efficiente. La comparazione tra Italia e Spagna induce a pensare che questo processo conosca più ostacoli nel caso italiano. In entrambi i casi, il picco del 2009 evidenzia la “selezione naturale” della crisi economica, già menzionata in precedenza.
Un altro aspetto interessante per comprendere le prospettive di sviluppo dell’economia italiana riguarda i settori di specializzazione. Se è vero che l’uso in larga scala di tecnologie sempre più avanzate nei processi produttivi rivoluzionerà l’industria italiana e mondiale, ci si può domandare se il nostro Paese si stia specializzando o meno in quei settori che utilizzano tecnologia informatica, dove i vantaggi in termini di produttività si prefigurano più rilevanti.
Nei grafici seguenti si può osservare la covarianza tra percentuale di capitale IT (sullo stock di capitale totale) e dimensione settoriale, sia in termini di ore lavorate che di valore aggiunto prodotto, cioè una misura di quanto un Paese sia specializzato in settori ad alta intensità di capitale tecnologico. Sembra che l’Italia sia un passo indietro rispetto ai maggiori partner europei.
Cosa è stato fatto e cosa manca
Non è una novità che un grande ostacolo alla ripresa della produttività italiana sia la mancanza di investimenti. Rispetto a ai principali paesi europei, il nostro paese ha infatti una quota di investimenti sul PIL più bassa e con la percentuale più alta di investimenti sussidiati dalle amministrazioni pubbliche (quasi il 6% del totale, contro il circa 4% di Francia e Germania e il 2% della Spagna). Un risultato paradossale per un’economia che è rimasta indietro e avrebbe bisogno di “recuperare terreno” in un contesto di cambiamento tecnologico e produttivo sempre più competitivo e globale. Le ragioni di tale deficit sono numerose e discusse, e includono l’inefficienza del sistema bancario, la scarsa diffusione del mercato dei capitali, ma anche un contesto istituzionale che limita le opportunità di iniziativa e forse una cultura imprenditoriale e sindacale in alcuni casi troppo conservativa e miope. In ogni caso, un numero variabile di queste ragioni è utilizzato come giustificazione di un intervento pubblico a sostegno degli investimenti e dell’innovazione, negli ultimi anni nella forma del programma industria 4.0.
Di certo il piano di incentivi previsto si è posto nella giusta direzione di aiutare le imprese a gestire a livello finanziario gli investimenti in innovazione, i quali prevedono tipicamente benefici di lungo periodo a fronte di costi iniziali non trascurabili, difficili da sostenere per le PMI con un ridotto accesso al credito. In particolare, a riscuotere maggior successo tra gli imprenditori sono stati i piani di ammortamento con supervalutazione degli investimenti in nuove tecnologie, come testimonia il grafico seguente.
Tuttavia, se da un lato industria 4.0 si è occupata di favorire gli investimenti materiali nelle imprese più innovative, ci sono due ultime novità che emergono dal rapporto. Il primo deriva dalla polarizzazione descritta precedentemente, ossia se e come aiutare la parte meno dinamica delle imprese italiane a rilanciarsi, ricollocarsi o essere integrati in imprese più dinamiche. Il secondo aspetto su cui ragionare riguarda la necessità di promuovere non solo gli investimenti materiali (macchinari, stabilimenti,…) ma sopratutto di promuovere quelli intangibili (innovazione di processo, ricerca, digitalizzazione, marketing…). Per sua natura, e data la contingenza in cui è stata implementata, Industria 4.0 è stata infatti particolarmente d’aiuto ai cosiddetti “innovatori hard” o “innovatori di prodotto”, categorie maggiormente concentrate nelle imprese manifatturiere, già grandi e di per sé più propense ad esportare, mentre non ha sostenuto gli “innovatori soft” e “di processo”, tipicamente medio-piccoli e concentrati nei servizi. Di conseguenza, la ripresa delle prime due categorie di investimento, crollate durante la crisi, è stata in questi anni più pronunciata e con contributi alla crescita del PIL più elevati. A questo punto, però, l’esigenza è forse di allargare industria 4.0 agli investimenti intangibili.
Potrebbero questi due aspetti essere affrontati da una politica pubblica? Riguardo all’eccessiva polarizzazione, viene naturale pensare a forme di incentivi all’aggregazione ed all’acquisizione, al fine di aumentare le dimensioni e quindi la capacità di investimento delle imprese ed integrare i contesti meno produttivi in quelli più competitivi. Tali misure hanno però avuto poco successo in passato, forse scontrandosi con una poca disponibilità a vendere da parte degli imprenditori o a una poca interconnessione del mercato. Un’idea potrebbe essere quella di favorire la capitalizzazione delle aziende o i finanziamenti bancari di lungo termine, non necessariamente tramite un sostegno diretto ma magari assicurandone il rischio. Soprattutto, sarebbe utile un efficientamento della pubblica amministrazione ed una revisione della pressione fiscale su imprese e lavoro (non solo in termini di tassazione degli utili, relativamente in linea con il resto d’Europa, ma sopratutto sul costo del lavoro), fattori che nel Global Competitiveness Report del WEF restano i primi ostacoli alla crescita delle imprese, ben davanti all’accesso ai finanziamenti.
Un’opportunità politica
Purtroppo, nel limbo post-elettorale che dura oramai da più di un mese, nessuno sembra preoccuparsi di come far crescere la produttività nel nostro paese, oramai ferma da 30 anni. In un’ottica che è tipica dei populismi in tutto il mondo, i maggiori partiti sembrano escludere la possibilità che la torta cresca, preferendo litigare sul come distribuirla, come difenderla da varie mani esterne, o peggio promettendo ad ognuno la fetta più grossa, nascondendo per ignoranza o malafede il conto finale. Il successo di tali strategie deve far riflettere, ma non scoraggiare né suggerire isolazionismi o ripensamenti disordinati. Parlare di produttività come chiave per uno sviluppo sostenibile nel lungo periodo significa parlare della capacità delle famiglie di crescere, della società di essere vibrante, innovativa e in grado di portare avanti chi è nato indietro. Non solo chi si rifiuta di cedere al negazionismo economico, ma soprattutto chi crede nella possibilità di uno sviluppo democratico e aperto non può rinunciare a parlare in maniera chiara delle sfide economiche e sociali del nostro paese, come quella della crescita della produttività. A partire dal patto di legislatura del nascituro governo cominceremo a capire se il risultato dell’attuale assetto istituzionale, scivolato nel proporzionale e in una frammentazione ben più liquida che nella prima repubblica, sarà uno sciacallaggio fatto di diverse lottizzazioni della nostra economia e della nostra società, favorendone un’inevitabile stagnazione, o se vedremo qualcuno proporre un progetto economico, politico e culturale vero per il nostro futuro. Rilanciare la produttività è in questa ottica una condizione magari non sufficiente, ma certamente necessaria; una sfida politica fondamentale che aspetta di essere raccolta con credibilità.
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