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Il protezionismo Usa non è una novità ma questa volta vuole colpire gli amici
L’amministrazione Trump, richiamandosi alla clausola di sicurezza nazionale prevista nella sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962, ha dato un impulso decisivo alla propria politica neoprotezionista con la fissazione di dazi del 25% sull’import di acciaio e del 10% sull’alluminio, prevedendo attualmente la possibilità di esenzioni per alcuni Paesi come Canada, Messico e Australia.
Storicamente, il ricorso al protezionismo scaturisce dal tentativo di tutelare l’industria nazionale e l’occupazione nei settori colpiti dalla concorrenza straniera riequilibrando la bilancia dei pagamenti, oppure di proteggere lo sviluppo di interi comparti nei Paesi meno avanzati. Nel caso degli Stati Uniti, la decisione dovrebbe servire anche ad arginare la crescita della Cina e la sua sovraccapacità industriale, in risposta alla protezione che l’economia cinese assicura ai propri settori strategici mediante normative restrittive della concorrenza, sussidi e mancata reciprocità nel trattamento degli investimenti stranieri, per tacere dei comportamenti scorretti negli scambi commerciali, proseguendo nel solco di iniziative simili adottate in precedenza dagli Stati Uniti.
I dazi su acciaio e alluminio, tuttavia, colpiscono solo parzialmente la Cina, mentre sono rilevanti per i partner consolidati, inclusa l’Unione Europea, e vanno ad alimentare un’ondata di neoprotezionismo che presenta diverse peculiarità.
Innanzitutto, l’annuncio dell’inasprimento daziario mediante l’attivazione della clausola di sicurezza nazionale rappresenta un salto nella prassi politica americana. Basti pensare che l’ultima volta che gli Stati Uniti hanno attivato questa procedura è stato diciassette anni fa con l’amministrazione George W. Bush, nel settore dell’acciaio e dei minerali ferrosi, mentre negli ultimi decenni il richiamo a questa clausola – che conferisce discrezionalità massima al presidente americano in materia di politica commerciale – è stato effettuato soltanto quattordici volte, e in sole tre occasioni si è proceduto poi con effettive restrizioni commerciali. Inoltre, l’amministrazione Trump ha preferito procedere in autonomia, prescindendo da richieste di investigazioni provenienti da associazioni di categoria, sindacali, multinazionali o gruppi di pressione.
Naturalmente, le misure protezioniste a stelle e strisce non cominciano con l’attuale presidenza. In linea generale, possono distinguersene quattro tipi: i dazi antidumping, i dazi compensativi o anti sussidio, le misure di salvaguardia globale nonché la già citata sicurezza nazionale.
I dazi antidumping (sezione 731 dell’US Tariff Act del 1930) sono applicati ai Paesi che vendono negli Usa prodotti a un prezzo inferiore a quello applicato nel mercato domestico o nei Paesi terzi, allo scopo di penetrare nel mercato statunitense danneggiando i produttori nazionali. I dazi compensativi (sezione 701 dell’US Tariff Act) si applicano invece per contrastare i sussidi all’export forniti dai governi stranieri per prodotti destinati agli Stati Uniti. Per la definizione di entrambi esistono due agenzie governative – la US International Trade Commission (USITC) e il Dipartimento del Commercio – che hanno il compito di studiare i casi di pratiche commerciali scorrette, presentando le risultanze delle proprie indagini ai fini dell’adozione delle opportune contromisure.
Nel periodo 1980-2016[1], negli Stati Uniti si sono registrate oltre 1300 indagini antidumping e oltre 600 anti sussidio, concluse con 649 misure antidumping e 279 anti sussidio. Molto più sporadiche le misure che si rifanno alla salvaguardia globale (sezione 201 del Trade Act del 1974) applicabili, qualora il presidente statunitense non lo ritenga inopportuno, nel caso di incremento delle importazioni a un livello pericoloso per l’industria americana, l’ultima delle quali è datata 2001.
Dall’analisi delle misure adottate nel tempo emergono chiaramente le frizioni con la Cina. Basti pensare che nel 2016, delle 292 misure antidumping in vigore, ben 102 erano volte a contrastare l’import dalla Cina. Al punto che, mentre soltanto il 2% dell’import dal resto del mondo era oggetto di misure antidumping, tale percentuale saliva a oltre il 9% per l’import dalla Cina. Discorso simile per i dazi compensativi poiché, a fronte di un totale di 82 misure in vigore, ben 37 si applicavano alla Cina, andando a coprire circa il 6% dell’import da quel Paese, a fronte di meno dell’1% dell’import dal resto del mondo. E tutto questo senza contare la possibilità di ulteriori provvedimenti restrittivi nei confronti della Cina.
In questo quadro, la minaccia di estendere potenzialmente erga omnes le barriere tariffarie suggerisce la volontà americana di riequilibrare la bilancia commerciale non soltanto con la Cina, ma anche con i principali partner occidentali. E, soprattutto, la volontà di depotenziare l’approccio multilaterale nel commercio internazionale in favore di una ridefinizione dei rapporti con gli altri Paesi su base bilaterale. Il perseguimento di tale strategia è dimostrato dal ritiro dalle trattative per la creazione di un’area di libero scambio nell’area del Pacifico (TTP – Trans-Pacific Partnership) e dal fallimento di quelle relative alla zona transatlantica di libero scambio con l’Unione Europea (TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership) nonché dall’ostruzionismo nei confronti dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ente deputato a dirimere controversie tra stati nel commercio internazionale, il cui funzionamento è boicottato dagli Stati Uniti che non consentono il rinnovo dei giudici negli organi per la risoluzione delle dispute, col rischio di causarne la paralisi a medio termine.
La leva protezionista presenta comunque un certo grado rischiosità per chi l’attiva. Intanto perché tende a far lievitare i prezzi interni, sostenuti in ultima analisi dal consumatore finale, a causa della minore pressione competitiva dall’esterno sulle aziende domestiche e dell’aumento dei prezzi di materie prime e semilavorati soggette ai dazi ed utilizzate dalle stesse imprese americane. D’altro canto, i Paesi esportatori colpiti dai dazi potrebbero trovarsi nelle condizioni di dover dirottare i propri prodotti in altri mercati, causando un eccesso di offerta con abbassamento dei prezzi e conseguente danno commerciale.
Per quanto riguarda invece la tutela occupazionale, è bene evidenziare che la protezione dei lavoratori nel settore dell’acciaio e dell’alluminio potrebbe avvenire a detrimento dei lavoratori americani occupati nei settori che utilizzano in misura maggiore le materie e i prodotti daziati. Senza contare, qualora l’escalation protezionista non si arresti, l’innesco di dispute commerciali e la possibilità di forme di ritorsione da parte dei Paesi maggiormente colpiti dalla politica neoprotezionista statunitense. Sul punto, si noti che nel 2016, in media, circa il 2% dell’export Usa era oggetto di barriere tariffarie nei Paesi del G-20, oscillando dallo 0% in Giappone, a circa il 3% in UE e a circa il 4% in Cina, con punte di oltre il 6% in Turchia.
Infine, resta da dimostrare che il contenimento della Cina e il contrasto alle sue pratiche commerciali scorrette passi attraverso l’allontanamento dai forum multilaterali e dall’abbandono dei negoziati commerciali – piuttosto che con la riforma e il ripensamento di entrambi – e, soprattutto, dall’adozione di politiche ostili anche ai principali partner degli Stati Uniti.
Twitter @andreafesta_af
*Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non impegnano l’Amministrazione di appartenenza.
[1] Chade P. Bown (2017), “Steel, Aluminum, Lumber, Solar: Trump’s Stealth Trade protection”, Peterson Institute for International Economics.