categoria: Vicolo corto
Leoni e catene? Ecco perché pensare al ritorno della schiavitù è una solenne corbelleria
Premessa autobiografica minima: devo la maggior parte delle mie opinioni sul mondo a una tradizione di pensiero, quella libertaria individualista, che – come spesso accade alle chiesuole – manifesta un grandioso appetito per l’osservazione urticante, la polemica oziosa e l’echiana tetrapilectomia. Da un punto di vista sociologico ed economico, lo sperpero di facoltà razionali implicito in quest’approccio argomentativo si può verosimilmente ricondurre a esigenze di dialettica interna e visibilità esterna: tale consapevolezza non intacca lo sbigottimento provocato da certe dispute accademiche – possiamo concepire la schiavitù volontaria, cioè la facoltà di alienare la propria stessa libertà personale? – ma induce forse a una maggior indulgenza nei confronti dei loro protagonisti.
Questo fiacco preludio per dire che mi sono accostato alla suggestione di reintrodurre la schiavitù, snocciolata su queste colonne da Enrico Verga, non solo senz’alcuno scandalismo, ma persino con una punta di simpatia – e di nostalgia per gli anni lieti in cui gli esperimenti mentali sull’assetto proprietario delle scialuppe di salvataggio mi parevano più preziosi di quelli di laboratorio per la cura del cancro. Tuttavia, devo anche anticipare che questa mia apertura di credito ha avuto respiro assai breve: perché le speculazioni teoriche sono una cosa, un’altra le proposte pratiche; e perché una provocazione consapevole richiederebbe un congruo tasso d’ironia: ironia di cui, nel post del mio vicino di tribuna, manca ogni traccia.
La boutade di Verga si regge su due presupposti convergenti – secondo i quali, l’esperienza storica della schiavitù gode di una fama immeritata; e il trattamento attualmente riservato a milioni di lavoratori denota, a ben vedere, criticità ancor maggiori – cuciti insieme da una serie di non sequitur (la schiavitù è stata praticata per secoli da numerose civiltà, anche democratiche: ergo, non doveva essere poi così male), da un utilizzo spericolato delle categorie giuridiche (la schiavitù come “soluzione contrattuale”) e da osservazioni folcloristiche (“molti schiavi ricevevano formazione”, dice il nostro, forse alludendo agli stuzzicanti corsi d’aggiornamento sulla raccolta delle olive).
Un lettore poco accorto potrebbe derivare dal resoconto di Verga la convinzione che la schiavitù fosse una sorta di villeggiatura a Sharm con trattamento all inclusive: ma, sebbene la condizione servile – come noto – variasse sensibilmente da un popolo all’altro (si pensi alle caratteristiche precipue degli iloti a Sparta), da un’epoca all’altra (la schiavitù della Roma imperiale non era certo la stessa della Roma arcaica) e persino all’interno della medesima società (il regime della schiavitù per debiti non coincideva perfettamente con quello della schiavitù per nascita o per prigionia di guerra), questa conclusione appare vagamente frettolosa.
Concentriamoci sugli schiavi romani. Pur volendo attingere a un approccio sostanzialistico – come quello adottato da Moses Finley nelle sue seminali ricerche sull’economia antica, che si preoccupano di valorizzare la posizione sociale degli schiavi, anche in rapporto a quella dei lavoratori liberi – è impossibile prescindere dal dato giuridico fondamentale: lo schiavo era né più, né meno che una res di cui il dominus poteva disporre a proprio piacimento: non solo destinandolo alle mansioni più disparate, ma anche stuprandolo, percuotendolo o uccidendolo, nonché donandolo, assegnandolo in eredità o vendendolo – magari a una scuola di gladiatori: il che equivaleva a una condanna a morte comodamente dilazionata.
Lo schiavo non poteva sposarsi, ma solo legarsi in un’unione di fatto, il conturbenium (Plutarco racconta che Catone il Censore permetteva ai suoi schiavi di accoppiarsi tra loro: ma a pagamento e intascandone il prezzo); l’eventuale prole rientrava nella proprietà del padrone; e la stessa cosa accadeva alla donna libera che intrattenesse una relazione con uno schiavo e, nonostante gli avvertimenti, non la interrompesse. Per definizione, inoltre, lo schiavo non godeva di diritti: contra Verga, “alloggio, cure mediche, vitto” gli venivano riconosciuti – quando gli venivano riconosciuti – solo per tutelare l’investimento del padrone; e anche quando l’esercizio delle prerogative dominicali cominciò a incontrare dei limiti, questi furono posti a presidio della pace sociale, non certo nell’interesse degli schiavi – che, peraltro, mancando di capacità giuridica, non avrebbero potuto ottenere alcuna tutela diretta.
È vero che già in epoca preclassica si era diffuso il costume di assegnare agli schiavi più capaci un peculium, cioè un complesso di beni da amministrare in autonomia – talora dando prova di considerevole acume imprenditoriale, sicché poteva accadere che alcuni di loro finissero per governare banche o grandi manifatture. Nondimeno, tanto il peculium, quanto gli acquisti successivi ricadevano nella proprietà del dominus, che poteva ottenerne la restituzione in ogni momento – ad nutum, come dicono quelli che hanno studiato.
A fronte di una minoranza di schiavi di condizione privilegiata – e suscettibili di affrancamento a titolo di ricompensa per i servigi resi al padrone: fermo restando che il ricorso alla manumissio era circoscritto dalla legge per difendere i creditori e il dominus stesso dalla propria eccessiva prodigalità – faceva da contraltare una schiacciante maggioranza esposta a trattamenti brutali e degradanti: del resto, sappiamo da Varrone che gli strumenti impiegati nel lavoro agricolo si distinguevano in tre categorie: quelli muti, quelli semi-parlanti (gli animali) e quelli parlanti – gli schiavi, appunto.
L’umanità dello schiavo trovava riscontro solo in due contesti: quello sacro e quello repressivo – qui, ovviamente, per giustificare misure severissime. Lo schiavo sorpreso a rubare e lo schiavo fuggitivo catturato – dei pratici collari individuavano il legittimo titolare per favorire la riconsegna – si vedevano marchiare a fuoco sulla fronte il ricordo delle rispettive debolezze; lo schiavo che avesse messo a repentaglio la vita del padrone veniva arso vivo; e la pena di morte colpiva anche lo schiavo che non fosse in grado di dimostrare di non aver potuto soccorrere il padrone trovato esanime in casa.
Non apro neppure il capitolo della schiavitù moderna e della tratta intercontinentale degli schiavi – usi persino più disumanizzanti e mortiferi – perché questi cenni esemplificativi dovrebbero essere sufficienti a mostrare che l’idillio schiavistico adombrato da Verga non è mai esistito. Tuttavia, non pago di cancellare in tre righe secoli di storiografia, il mio dirimpettaio si propone di riscrivere anche il presente: la schiavitù, c’informa, “con nomi differenti esiste e prolifera ancora in una buona parte del mondo”. Ah, sì? Nel suo Il declino della violenza, Steven Pinker accusa d’ignoranza statistica e ottusità morale chi non riesce a discernere tra una pratica clandestina diffusa in alcune zone del mondo e una pratica ovunque presa per legittima.
Il problema è che i bersagli di Pinker si riferiscono almeno al traffico di esseri umani; Verga, invece, al dramma delle partite Iva: “milioni di neo-schiavi” costretti a pagarsi da soli gli iPhone e le ferie. Se già sono schiavi, almeno schiavizziamoli per bene, dice Verga: diamo loro “casa pagata, ticket pranzo, copertura sanitaria, servizio di lavanderia” – tutte le classiche prerogative servili. “Ovviamente lo schiavo dovrà concedere la sua totale disponibilità” e sottostare al diritto di vita e di morte dell’amministratore delegato. Però potremmo risparmiargli i leoni; quanto alle catene, invece, sono già state reintrodotte sotto forma di telefoni cellulari, non ve n’eravate accorti? Delle e-chains, per così dire.
Comprendo benissimo, naturalmente, che quello delle garanzie del lavoro è un tema cruciale e che il sarcasmo in materia può apparire indelicato: ma non si vede come replicare altrimenti a una simile accozzaglia di corbellerie, per giunta presentate come verità apodittiche. Proprio perché il tema è cruciale, dovrebbe essere affrontato con rigore e senza spacconate intellettuali; dovrebbe essere affrontato con la consapevolezza dei valori in gioco e senza proclamazioni pirotecniche; dovrebbe essere affrontato, soprattutto, senza buttare nel cesso la più importante conquista politica dell’umanità. La libertà, caro Verga, è per tutti: anche per chi non la sa riconoscere e non sa bene che farsene.
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