Questo grafico dice una verità molto scomoda sul tasso di disoccupazione

scritto da il 05 Gennaio 2018

Pubblichiamo un post di Fedele De Novellis, partner ed economista senior di REF Ricerche –

Fra i temi di rilievo all’interno del dibattito sulle caratteristiche dell’attuale fase congiunturale vi è quello della mancata risposta di prezzi e salari al miglioramento del ciclo economico e alla diminuzione della disoccupazione. È un aspetto che coinvolge trasversalmente tutte le economie, ma in particolare quelle che si situano in una fase più avanzata del ciclo economico, ad esempio la Germania in Europa, oppure gli Stati Uniti. Al tema stanno dedicando attenzione anche le banche centrali, le cui scelte devono evidentemente tenere conto del quadro economico e delle prospettive dell’inflazione.

Alla spiegazione della bassa crescita dei salari concorrono diversi elementi. Uno degli aspetti sottolineati nel dibattito recente è rappresentato dal fatto che le misure di sintesi delle condizioni del mercato del lavoro utilizzate tradizionalmente, soprattutto il tasso di disoccupazione, potrebbero fornire in questa fase una rappresentazione non esauriente delle reali condizioni dell’economia. Le trasformazioni dei processi di produzione e i cambiamenti nella tecnologia concorrono a spiegare tale trasformazione.

Se questo è il caso per i paesi le cui economie negli ultimi anni sono andate bene, ci si deve allora chiedere quali siano le condizioni reali dei mercati del lavoro nei paesi che sono oggi più indietro nei tempi della ripresa, come l’Italia. Quantificare la dimensione reale della forza lavoro inutilizzata al termine del terribile decennio alle nostre spalle può anche aiutarci a interpretare i comportamenti, anche in termini di dinamiche di prezzi e salari, e a comprendere quanto lunga dovrà essere la ripresa prima di potere affermare di avere superato la crisi.

L’insoddisfazione verso le misure tradizionali di sottoutilizzo del fattore lavoro riflette il fatto che la crisi stessa ha alterato i comportamenti e modificato le modalità di partecipazione al mercato del lavoro, tanto da rendere sempre meno chiara la caratterizzazione dello stato di ciascun individuo. Non è cioè immediato ricondurre tutte le persone alle definizioni tradizionali di occupato, disoccupato o non appartenente alle forze di lavoro.

Se tradizionalmente la condizione di chi era classificato come occupato era chiara, essendo riconducibile prevalentemente ad alcune fattispecie standard – l’operaio, l’impiegato, l’artigiano, il professionista etc – oggi sono sempre più frequenti le situazioni di partecipazione meno strutturata: ci sono persone che lavorano saltuariamente, per poche ore, con remunerazioni bassissime.  Si tratta in alcuni casi di situazioni in cui la disoccupazione viene “nascosta” alle statistiche ufficiali dietro l’apparenza di una qualche forma minima di attività.

Allo stesso modo, possono non essere classificate fra le forze di lavoro, e quindi non essere incluse nella categoria dei disoccupati, persone che non hanno effettuato azioni di ricerca attiva di un impiego, ad esempio perché hanno perso la speranza di trovare lavoro. In altri termini, oltre a coloro che rientrano nella classificazione tradizionale di disoccupato, vi sono molti altri che, pur non rientrando in tale fattispecie, sono in una condizione ad essa molto prossima.

Naturalmente, forme non standard di partecipazione al mercato del lavoro non sono una novità dei nostri tempi, ma certamente negli ultimi anni il loro rilievo è molto aumentato. Per fornire una evidenza dell’entità del fenomeno, nel grafico seguente si mostra non solo l’andamento nel tempo dei numero dei disoccupati secondo la definizione ufficiale (l’area arancione nel grafico), ma anche quello di coloro che si caratterizzano per una situazione di “quasi disoccupazione”. Fra questi abbiamo incluso (nella parte in alto) coloro che non appartengono alle forze di lavoro, ma che si dichiarano disponibili a lavorare qualora se ne presenti l’opportunità, oppure che dichiarano di cercare lavoro, pur non avendo effettuato azioni di ricerca attiva nel periodo della rilevazione.

graficodenov1

Al di sotto dell’area degli occupati secondo la definizione ufficiale sono invece evidenziate altre due aree.

La prima è quella dei lavoratori in Cassa integrazione guadagni (che sono classificati fra gli occupati visto che l’assegno della Cig è erogato a chi è occupato), un’area che adesso si è quasi azzerata, ma che nel corso della crisi ha avuto una certa consistenza.

La seconda è quella dei lavoratori part-time cosiddetti “involontari”, cioè coloro che hanno un lavoro alle dipendenze part-time pur essendo alla ricerca di un impiego a tempo pieno. D’altra parte, chi lavora a part-time è classificato come un occupato, ma forse è allo stesso tempo un mezzo occupato e un mezzo disoccupato.

Il senso di questa rappresentazione è chiaro: mentre utilizzando le definizioni ufficiali le forze di lavoro sono quasi 26 milioni e gli occupati circa 23 milioni, per cui i lavoratori disoccupati risultano pari a tre milioni circa, utilizzando i valori estremi della nostra area si calcola un’offerta di lavoro potenziale di circa 29 milioni di persone, e un numero di occupati “standard” (cioè al netto dei lavoratori in Cig e dei part-time involontari) che è poco sopra i 20 milioni. Ne deriva che l’area della disoccupazione nel senso più ampio, cioè delle persone potenzialmente attivabili per allargare la base produttiva del paese è amplissima: circa 9 milioni di persone (erano  9 e mezzo nel 2014, ma “solo” 5 nel 2007) per un tasso di disoccupazione che secondo questa definizione più allargata giungerebbe a sfiorare il 30 per cento!

A ben vedere proprio l’ampiezza di quest’area è la misura più corretta della pesante eredità degli anni della crisi alle nostre spalle. E’ un esercito di persone potenzialmente attivabili, la cui dimensione è evidentemente tale da non potere essere scalfita che in minima parte anche nelle ipotesi più favorevoli sulla crescita degli anni a venire.

Twitter @fdenovellis1