Il lavoro è diventato una commodity?

scritto da il 03 Gennaio 2018

L’autore di questo post, Raffaele Perfetto, ha acquisito esperienza decennale in ambito Oil & Gas con una Major Oil Company. Ha conseguito un MBA in Oil & Gas Management nel 2016. Scrive preferibilmente di energia e geopolitica –

Nelle scorse settimane abbiamo sentito tanto parlare della sentenza Uber, dei ritardi nella consegna dei pacchi di Natale per lo sciopero al centro Amazon di Piacenza, dello sciopero dei piloti di Ryanair. C’è da chiedersi: ma il lavoro sta diventando una commodity?

Chiariamo prima brevemente cosa intendiamo per diventare una commodity, altrimenti detto, italianizzando, commoditizzazione. Interessa principalmente i prodotti ma riguarda anche i servizi, avviene in presenza di una cospicua disponibilità del prodotto e la competizione si basa essenzialmente sul prezzo che tende gradualmente al costo. Pensiamo ad Apple/Samsung per gli smartphone e Google/Apple per le app. All’industria (1) dei trasporti, ristorazione, retail, cioè a Just Eat, Foodora, Netflix, Uber, Airbnb, Fitbit, ecc…

Labor is not a commodity. Un po’ di storia…Nel 1944 la International Labour Organization (ILO), agenzia ONU che promuove la giustizia sociale e i diritti umani sul lavoro, introdusse questa massima trai i principi fondamentali, anche se in realtà essa fu coniata dall’economista irlandese John Kells Ingrams (fine ottocento). Parte delle idee e spunti di Ingrams possono riconoscersi anche nell’articolo 23 (sul lavoro) della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Ma immaginiamo che il lavoro sia una commodity e trattiamolo così (per un po’). Applichiamo il metodo delle 5 Forze di Porter (in figura) usato da manager e strateghi aziendali quando hanno nel mirino un’industria/mercato.

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1- Power of Supplier. I fornitori del “prodotto lavoro” ossia i lavoratori. Se consideriamo il trade union density (numero di lavoratori iscritti a sindacati sul totale lavoranti) disponibile dal sito ILO (2), dal 2001 al 2013 abbiamo una riduzione a livello medio globale, dal 32% al 23%. Anche il numero di scioperi registrati (ILO) è calato: nel 2004, ne abbiamo 13 000 contro i 4 000 del 2016. Una generale riduzione di peso. Anche se le ultime news Ryanair, Uber, Amazon ecc… lasciano pensare ad un’inversione di tendenza.

2- Power of Customer. Chi “compra il lavoro”? Consideriamo appunto le aziende.

Business Insider (3) di recente ha riportato che il valore dei primi 10 mercati azionari è passato da 23 a 51 trilioni di dollari negli ultimi 13 anni (vedi tabella). Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che facendo così non abbiamo informazioni delle aziende non quotate ma solo a scopo di “orientamento” assumiamo che vada bene.

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3- Threat of New Entrants. Conoscete la teoria delle “Flying Geese” (anatre volanti)? Ci dice che il processo di industrializzazione in un paese inizia con prodotti a basso valore aggiunto, poi l’arrivo delle fabbriche sviluppa l’economia e i salari. Ad un certo punto o ci si sposta pù in alto nella catena del valore, oppure si delocalizza in posti in cui i salari (e/o altri fattori) sono ancora bassi. Un recente libro (non ancora tradotto in Italia) in voga tra scuole e riviste di business management ci descrive perché e come passeremo dall’attuale fabbrica del mondo (Cina) alla prossima (Africa). Praticamente la crescita dei salari cinesi sta spingendo a delocalizzare. Dal sito della ILO abbiamo prelevato i dati annuali dei salari, fattore chiave per l’industria manifatturiera, inseriti nei seguenti due grafici: notiamo la forte crescita nell’area Asia/Pacifico.

Comprendiamo che le barriere di ingresso al mercato lavoro si sono abbassate: la competizione non avviene più su scala nazionale, ne parla in un recente articolo (4) Econopoly.

La World Bank indica (5) che il numero di persone sotto la soglia di povertà nell’Asia dell’Est e del Pacifico è passato da 966 milioni nel 1990 a 71 milioni nel 2013. Capiamo il perché.

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4- Threat of Substitute. Automazione. Bloomberg (6) indica che per i lavori che richiedono un livello di istruzione sotto a quello di scuola superiore e con un salario sotto ai 30.000 dollari annui, l’80 % potrebbe essere automatizzato. Si libereranno altri posti con maggiore valore aggiunto come suggerisce sempre Econopoly in un altro post (7): sarà necessario un programma adeguato di formazione, questo è certo.

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5- Intensive rivalry. La competizione è intensa e su scala globale. Soprattutto per manifatturiero e industria a basso valore aggiunto. Cioè, dove compete la piccola e media impresa.

Alcuni spunti utopici. O forse no.
Ci rendiamo conto di quanto sia rischioso avere una classe politica e sindacale impreparata alle dinamiche in atto (globalizzazione, rivoluzioni tecnologiche)? Anche perché le velocità di cambiamento sono ormai esponenziali: un’azienda, anche un colosso, in 7-10 anni può non esistere più, vedi Nokia e Motorola. Sindacati troppo local corrono il rischio di essere marginalizzati nel dialogo delle parti. La stessa ILO stressa il fatto dell’importanza dei contratti nazionali, utile a bilanciare l’industria. Proviamo ad immaginare ad un contratto multinazionale quanto peso possa avere.

La domanda è: come essere più competitivi nello scenario globale e tecnologico attuale?

Ovviamente tutto ha senso se si condividono le stesse regole del gioco: diritti umani, ambientali, ecc.

Infatti, sebbene parlare di commoditizzazione del lavoro possa sembrare eccessivo, il rischio esiste. Il Journal of Workplace Rights (8) in merito ai drammatici casi di suicidio nel 2010 di alcuni dipendenti della cinese Foxxcon indicava tra le cause proprio la commoditizzazione del lavoro e dell’istruzione.

Vediamo tensioni, ma queste vanno interpretate positivamente, sono il segnale che il dibattito è vivo, vedi Uber, Ryanair, Amazon (Piacenza) e cosa sta accadendo nel WTO: se riconoscere o meno lo status di market economy alla Cina.

Un recente studio (9) di Boston Consulting Group, leader di consulenza aziendale strategica, propone come metro di misura il Total Societal Impact in alternativa al Total Shareholder Return, allargando dagli shareholders agli stakeholders. Si scopre che essere più sostenibile e a lungo termine è anche economicamente più proficuo. Una sorta di Neo Umanesimo Industriale.

Twitter @Raff_Perf

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