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Big data, l’Italia è un’immensa miniera ma non ha minatori!
Negli ultimi mesi si è parlato spesso di web tax. Una tassa che avrebbe dovuto riequilibrare (per usare un termine gentile) il disordine (involontario, si intende) che esiste tra le società che operano facendo ricavi e pagano le tasse in Italia e quelle “digitali”, che hanno spesso una sede in una nazione europea dove la tassazione corporativa è particolarmente vantaggiosa (per esempio, l’Irlanda).
Stando a quello che si legge in un articolo del Sole 24 Ore la webtax non influenzerà la vendita di beni fisici (e-commerce) ma solo la vendita di servizi e sarà del 3%. A modesto avviso dello scrivente è difficile che tale soluzione porti a riequilibrare lo sbilanciamento tra compagnie di big data straniere che insistono sul nostro territorio e quelle native italiane, che le tasse devono pagarle.
Di recente, ad ogni modo, Facebook ha dichiarato che i suoi uffici nazionali verseranno le tasse nei Paesi dove sono presenti e grazie ai quali fanno ricavi. Facebook, cifre alla mano, nel 2016 ha prodotto oltre 200 milioni di euro di fatturato in Italia ma ha pagato poco più di 200.000 euro di tasse.
Sulla stessa linea sembra porsi Amazon, che ha definito un accordo con il fisco italiano per pagare 100 milioni di euro per le eventuali controversie fiscali dal 2011 al 2015. Anche in questo caso non avendo visibilità sull’entità di queste “controversie” non sono nella posizione di poter dibattere se tale cifra sia ridotta o equa.
Entrambi gli esempi, tutti da seguire per comprendere l’effettivo sviluppo, potrebbero essere il primo passo per tentare di riequilibrare una grave situazione che affligge l’Italia e tutte le altre nazioni europee.
Per spiegare meglio il concetto facciamo un paragone con il mondo petrolifero.
In passato (alcuni maliziosi potrebbero suggerire tuttora) una serie di nazioni ricche di petrolio e gas erano oggetto di sfruttamento da parte delle grandi compagnie energetiche. Se pensiamo alla storia, la memoria va velocemente alle cosiddette 7 sorelle (di cui trovate un approfondimento recente sulle loro politiche di sfruttamento qui), che costituirono di fatto un cartello per sfruttare i giacimenti dei paesi poveri. Per poveri mi riferisco non solo ad un’oggettiva povertà pro-capite ma, e soprattutto, in termini di carenza cronica di infrastrutture tecnologiche e amministrative adatte per poter valorizzare le loro risorse.
Un eroe del passato, con una morte che ancora sarebbe da comprendere, fu Enrico Mattei, che, partendo da una nazione povera di risorse energetiche, riuscì a creare un patto di collaborazione per valorizzare le risorse dei paesi sfruttati a beneficio di entrambi i mondi (quello occidentale e quello in via di sviluppo).
Oggi in Italia siamo in una condizione simile, l’unica differenza è che la nostra ricchezza risiede nei dati personali che riusciamo a generare (i famosi big data) grazie ad un elemento che nessuno può toglierci: il turismo.
Dati alla mano del Sole 24 Ore, nel 2016 abbiamo ricevuto oltre 50 milioni di turisti stranieri, ai quali si deve aggiungere il turismo domestico.
Qual è il valore dei dati personali di ogni singola persona? In una delle sue analisi Visual capitalist riporta una cifra di circa 2700 dollari a persona. Una cifra in vero altamente soggettiva: vi sarà sempre da discutere quanto i dati personali abbiano o meno una valorizzazione. Detto brutalmente un manager di 45 anni con un potere di spesa di 100.000 dollari possiederà gli stessi dati (acquisibili dalle varie big data companies) di un laureato millennials al primo impiego, che, tuttavia, avrà un potere di spesa minore (e di conseguenza sarà meno rilevante per le compagnie che valorizzano i suoi dati o vendono accesso al suo traffico tramite pubblicità degli inserzionisti).
Il turismo, quindi, allo stato attuale è come il petrolio per un paese arabo. L’ultimo miglio (nel caso del turismo) o il primo miglio (nel caso della materia prima appena estratta) hanno un valore limitato. Mentre quando si valorizza sull’intera filiera il potenziale è decisamente maggiore. Di fatto il turismo, in Italia, non dovrebbe essere visto solo come l’oggetto ultimo con cui fare profitti (cosa che succede ora, quello che chiamo ultimo miglio) ma lo strumento per generare e raccogliere un’immensa mole di dati che possono poi essere raffinati.
La loro raffinazione (gusti del turista, preferenze paesaggistiche, alimentari, enologiche, di consumi etc..) può portare alla creazione di un’offerta su misura, per meglio identificare potenziali domande inespresse che la nostra offerta turistica, enogastronomica, design e moda, possono soddisfare.
Torniamo al turismo per meglio comprendere cosa intendo per “ultimo miglio”.
Ipotizziamo che un turista inglese, o americano, decida di venire in Italia. Vivere a pieno l’esperienza italiana. Plausibilmente cercherà un tema o una città da visitare su Google, poi prenoterà su portali come E-dreams o Booking. Una volta giunto in Italia prenoterà un ristorante con Tripadvisor, oppure discuterà, grazie ai social, (Instagram e Facebook) con i suoi amici, in remoto, dove andare a mangiare.
Chiamerà un’auto con Uber (l’azienda di trasporti privata che ha gravi problemi a comprendere le norme sul trasporto, in molti paesi del mondo) e via. Tutte le aziende citate, oltre ad avere (mi si corregga se sbaglio) un ufficio centralizzato per i pagamenti fuori dell’Italia (quindi de facto eludono le tasse) cingono d’assedio l’Italia.
Per essere più chiari immaginate una città cinta da alte mura. Per avere accesso alla città è necessario entrare da cancelli dedicati sorvegliati da guardie che chiedono un biglietto. Ecco le mura e le guardie non sono un esercito di proprietà della città (che quindi trae un ricavo economico dalla tassa di entrata) ma di un esercito straniero. Le famose compagnie di big data (o come li preferisco chiamare io mercanti di anime).
Il valore dell’Italia è la sua esperienza. Ma allo stato attuale noi italiani riceviamo solo le briciole. La pizzeria pagata (magari tramite una bella app cashless non europea), il paesaggio,etc..
Facciamo un parallelo che potrebbe sembrare all’apparenza estremo.
Amazon, altro gruppo americano, non vende nulla. Di fatto acquisisce dati (d’ora in poi, anime) facendosi pagare (dalle persone la cui anima è valorizzata su Amazon, ergo comprano sul sito). Amazon sfrutta i prodotti che vende in due modi. Uno, il più palese, guadagnando sulla vendita del prodotto. Il secondo, molto più interessante, traendo beneficio dal traffico di anime che sciamano ogni giorno sul sito. Con questi dati Amazon è capace di creare scenari predittivi altamente profilati e di definire le sue strategie su ogni segmento di popolazione.
In questo modo il gigante dell’e-commerce si è trasformato da un mero distributore di prodotti per conto terzi in proprietario dei clienti. Con la possibilità (un esempio estremo) di rimuovere una lista di prodotti e sostituirla con un’altra assimilabile, senza che di fatto il cliente possa avere un eccessivo fastidio.
Ora se è vero che il Colosseo non può essere rimosso (salvo alcune deprecabili repliche in scala in altre nazioni) è vero che la sua valorizzazione è limitata.
Come menzionato poco sopra, se si possiede un giacimento di petrolio non si è ricchi. Solo se lo si trivella, si estrae, si raffina e si vende dove i mercati lo trovano di interesse allora si è ricchi.
Ne ho parlato con Elena David, Ceo di Valtur, un nome storico nel turismo di qualità made in Italy.
“Prodotto, posizione e persone” attacca Elena “abbiamo la torre di Pisa, il Colosseo, le strade di Montalcino etc.. non sono replicabili da nessuna parte. Poi c’è il cliente. Che utilizza Facebook e tutte le altre realtà big data. Io non ci leggo un rischio ma un’opportunità. L’Italia nel turismo è nana. In tutte le sue componenti. Il nanismo è tipico delle nostre imprese. Abbiamo una mancanza di grandi catene alberghiere. Anche sul fronte legislativo abbiamo delle lacune. Son tutte elementi della debolezza che impediscono di valorizzare questo paese. Personalmente non sono nel “coro” che dà la colpa ai big data. Consideriamo la Toscana. Se il 40% degli albergatori si unisse, facendo muro per porre le proprie condizioni di proposizione commerciale delle camere sui portali big data, sarebbe una soluzione ottimale. Si potrebbe avere il vantaggio dei dati ma con un guadagno valido per il turismo italiano. Alla fine noi come operatori turistici non vendiamo turismo ma l’intera esperienza italiana. In una situazione di blocco unito anche un Booking non potrebbe far altro che accettare le nostre condizioni. Ma se si agisce individualmente c’è poco da fare”.
Quello che serve all’Italia, oltre ad allineare le big straniere alle aziende italiane in tema di eguale tassazione dei ricavi, è una strategia che veda il turismo come è in realtà: non un semplice mezzo per fare soldi a breve termine (il famoso ultimo miglio), ma un giacimento ricco e profondo la cui intera valorizzazione deve divenire un obbiettivo delle singole realtà industriali italiane: dal comparto della produzione agricola a quello dell’edilizia, dalla moda al design. Con un numero di dati da raffinare si possono creare scenari di domanda e offerta più complessi e orientare parte del made in Italy verso questa domanda.
In mancanza di una strategia, resteremo come una nazione del terzo mondo le cui ricchezze vengono sfruttate da altri.
Twitter @EnricoVerga