categoria: Draghi e gnomi
L’UK si può permettere la Brexit? Sì, per il momento. Ecco perché
Ora che fischia sempre più forte il vento della Brexit, vale la pena spendere un po’ di tempo a interrogarsi sui possibili sviluppi futuri dell’economia britannica, almeno in relazione ai suoi rapporti con l’estero, partendo da un dato che giustamente è stato messo in rilievo in una recente analisi pubblicata dagli economisti della Banca d’Inghilterra: il deficit del conto corrente UK.
Ricordo che ogni paese, effettuando scambi col resto del mondo, genera attivi e passivi, sotto forma di crediti e debiti che possono riguardare merci, servizi o redditi. Questi flussi, sommandosi algebricamente, generano un saldo che può essere un surplus o un deficit. In quest’ultimo caso questi debiti devono essere finanziati. Ecco perché gli osservatori guardano a un deficit di conto corrente eccessivo e persistente come a una possibile causa di instabilità finanziaria, esponendo il paese al rischio dei cosiddetti sudden stop: improvvise interruzioni di finanziamenti dall’estero per mancanza di fiducia che scompensano la stabilità finanziaria di un paese. Noi italiani abbiamo visto qualcosa di simile all’opera sul finire del 2011, quando esplose la crisi dello spread. La mancanza di denaro, è chiaro, fa salire il costo per il paese che ne ha bisogno.
Il Regno Unito ha avuto un deficit corrente del 5,9% del Pil nel 2016, il più ampio da quando sono cominciate le raccolte ufficiali dei dati nel 1948, che in teoria sottopone la stabilità del paese alla “generosità degli stranieri”, ossia di coloro che questo deficit devono finanziarlo con i loro prestiti. La dolce vita dei britannici ha un costo salato e notoriamente non esistono pasti gratis. Senonché, nota il nostro autore della Bank of England, “se guardiamo ai flussi lordi anziché a quelli netti di capitale si osserva che dal 2012 gli afflussi di capitali dall’estero sono stati molto limitati in confronto con i livelli passati”.
L’UK, infatti, risulta abbia beneficiato “di crescenti guadagni di capitale sui passati investimenti esteri” e che “li ha usati per finanziarie le sue spese”. Questo consumo di risorse accantonate ha il vantaggio, scrivono gli autori, di esporre il paese ad assai meno rischi di stabilità finanziaria rispetto ai prestiti esteri. Ma soprattutto ci dice molto sulla fisionomia dell’economia britannica. “Piuttosto che un povero che si affida alla carità degli stranieri, – scrivono gli autori – l’UK è come un membro della nobiltà terriera che usa i suoi investimenti esteri per finanziare gli eccessi del suo lifestyle“. Peccato ci siano già passati un secolo fa i gentiluomini inglesi. E non è finita bene.
Qualche dato in più aiuterà a dimensionare al meglio la questione. Il conto delle merci britannico, che è una delle componenti del conto corrente della bilancia dei pagamenti, è in deficit dal 1998, e per giunta consistentemente. Il saldo primario dei redditi, che è un’altra componente del conto corrente, si è deteriorato sensibilmente a partire dal 2011. Tutto ciò implica che il paese abbia contratto debiti nei confronti dell’estero. Un modo per finanziare questi deficit è che i non residenti comprino asset fisici o finanziari in UK. Ma questo non si è verificato. “Infatti – sottolinea lo studio – fra il 2012 e il 2016 non c’è stata alcuna “generosità” da parte degli stranieri: il deficit di conto corrente in quel periodo è stato di 480 miliardi di sterline e i flussi dall’estero sono stati negativi per 82 miliardi. In altre parole i non residenti hanno abbassato la quota di beni britannici in loro possesso anziché aiutare a finanziare il deficit”.
Come si può osservare dai conti finanziari della bilancia dei pagamenti, ciò che è accaduto è che i residenti hanno diminuito di 526 miliardi i loro stock di investimenti all’estero, circa il 6% del Pil, più che finanziando così il deficit corrente. E’ ovvio chiedersi, sottolinea l’autore, per quanto tempo i britannici potranno continuare a finanziare con i propri patrimoni esteri i deficit correnti. La risposta è che “c’è un ampio stock di asset all’estero, pari al 420% del Pil”, quindi in teoria questo salasso potrebbe durare per decenni. Anche perché malgrado la vendita di questi 526 miliardi il valore complessivo di questi asset non è diminuito nel periodo considerato, grazie soprattutto al cosiddetto effetto di rivalutazione. Sicché alla fine la posizione netta degli investimenti esteri (NIIP), che nel 2012 si era molto deteriorata, a fine 2016 è arrivata di poco sotto lo zero.
Che vuol dire tutto ciò? Che i britannici, oltre ad essere ben dotati, sono stati anche bravi o fortunati. Nel 2016, osserva l’autore, la crescita delle barre blu del grafico, quindi del valore dei patrimoni esteri, è stata spinta dai movimenti valutari, sostanzialmente la svalutazione della sterlina, ma non solo: sull’aumento potrebbero aver giocato un ruolo anche capital gain magari conseguenza del miglioramento economico globale. Ma la questione rilevante di policy è un’altra: Londra è ben attrezzata per affrontare gli eventuali venti finanziari contrari della Brexit? Sul versante estero sembra di sì, pure se finora ciò ha avuto un costo evidente. Prima della crisi del 2008, infatti, l’Uk è stato destinatario di rilevanti flussi lordi di capitali dall’estero che hanno raggiunto il 60% del Pil. Dopo il crollo questi flussi si sono prosciugati e adesso dall’estero questi finanziamenti lordi non hanno superato il 4% del Pil negli ultimi tre anni.
Abbiamo visto che per compensare questi minori afflussi i britannici hanno attinto ai loro capitali esteri, capienti abbastanza anche grazie all’aumento di valutazione determinato dalla svalutazione e ai capital gain. Ma ciò vuol dire semplicemente che la “resistenza” del Regno Unito a un persistente deficit di conto corrente dipende da quella dei patrimoni esteri, che a loro volta sono influenzati sia da questioni valutarie che finanziarie, sulle quali il paese può intervenire fino a un certo punto.
Inoltre c’è anche il versante interno di cui tener conto: la svalutazione che ha fatto salire le valutazioni degli asset esteri ha fatto anche decrescere i salari reali britannici in un momento in cui, oltre alle previsioni di crescita riviste al ribasso, l’UK deve vedersela con una andamento assai poco soddisfacente della produttività. Fra agosto e ottobre, secondo gli ultimi dati dell’istituto di statistica i salari nominali sono cresciuti del 2,5%, ma sono scesi dello 0,2% se consideriamo quelli reali. E tutto ciò non è certo un buon viatico per il sostegno della domanda.
Quindi alla domanda se l’Uk può permettersi la Brexit sarebbe saggio rispondere sì. Per adesso.
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