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Salari bassi, talvolta minimi: il grande nodo che nessuno affronta
L’economia di mercato porta a pagare di più le risorse scarse e di meno quelle abbondanti. Applicato al mercato del lavoro significa che quando un lavoratore è conteso da più aziende il suo salario crescerà, mentre se risulta facilmente sostituibile (ovvero è facile e poco costoso trovare un’altra persona che faccia la stessa cosa o addirittura la faccia meglio, a parità di salario) il suo salario tende a rimanere stagnante o addirittura a calare.
Se la scarsità di lavoro arriva a quelli meno remunerati e con lavori meno complessi c’è un innalzamento dei salari dalla base, mentre se il sistema produttivo ed economico pone la scarsità più in alto nella scala di complessità, una parte dei salari cresce, un’altra rimane bassa. L’entrata sempre più consistente di tecnologia e globalizzazione nelle nostre vite ha prodotto un cambiamento radicale di questa struttura.
Nel mercato globale ci sono sempre più “winner-take-almost-all” globali. I “winner-take-almost-all” locali, una volta tanti e spina dorsale economica della borghesia alla base delle democrazie, oggi hanno due opzioni: o partecipano alla gara globale o muoiono. In ogni caso calano di numero, con un aumento strepitoso di dimensione economica per chi invece ce la fa. La barriera all’ingresso si è abbassata, ma quella al successo (e sopravvivenza) è diventato un muro altissimo.
Grazie alla tecnologia l’aumento di produttività ha cambiato natura: più che il lavoro produttivo diretto conta la ridefinizione dei processi produttivi su base tecnologica. Sono quindi le persone capaci di fare questi cambiamenti a raccogliere i frutti dell’aumento di produttività. E poiché sono pochi rispetto alla domanda, succedono due cose. La prima, che i loro stipendi possono esplodere senza intaccare in modo significativo i costi dell’azienda. La seconda è uno spostamento sistematico di risorse dai salari ai profitti, documentato in ogni modo negli ultimi 30 anni.
Se l’economia comincia a tirare, c’è assorbimento dei disoccupati senza aumenti di salari alla base della piramide, mentre da un certo punto in su della stessa piramide i salari aumentano, perché le aziende cercano di raccogliere il meglio dal mercato del lavoro e offrono di più. La delocalizzazione nei paesi a basso costo del lavoro della produzione sta finendo, perché appunto non sono più i salari alla base della piramide il collo di bottiglia competitivo.
La teoria classica direbbe che i bassi salari portano le persone a prepararsi a fare lavori più complessi e meglio pagati. Ma questo meccanismo sembra inceppato e i dati che abbiamo su quasi tutti i paesi sviluppati raccontano che una parte molto consistente dei lavoratori rimane intrappolata nella parte salariale stagnante. Parte che rimane sovrappopolata rispetto alla domanda del loro lavoro.
Se concordiamo su questa descrizione è estremamente difficile sviluppare ricette per uscirne.
La ragione principale è che ogni azione viene decisa su base nazionale, mentre il contesto su cui gli attori si muovono è globale. Il che fa si che ogni decisione percepita come coercitiva da parte di uno stato produce fuga di fattori altrove
Ogni paese è poi diverso su molti altri fattori (il più importante dei quali l’efficacia nell’uso delle risorse pubbliche, al secondo posto il livello di tassazione) ma si inserisce comunque dentro alle forze descritte sopra.
La mia impressione è che – a eccezione dei portatori d’interesse che sostengono appunto i loro interessi – non ci sia nel dibattito in corso nessuna proposta che affronti questo stato di cose. Quando i sindacati erano capaci di incidere sulla politica nazionale riuscivano a spostare risorse dai profitti ai salari. Ma c’erano due condizioni molto precise che oggi non ci sono più: bassi tassi di disoccupazione ed economie molto meno globali. Oggi una politica sindacale dura orientata ad aumentare i salari per tutti tramite i CCNL (contratti collettivi nazionali del lavoro) avrebbe come effetto principale una minore competitività della aziende che operano sul territorio nazionale e quindi una fuga verso l’estero.
Oggi i profitti o l’aumento di valore delle aziende vengono condivisi con i lavoratori tramite vari schemi di stock-option o bonus, ma tipicamente sono concentrati sulla parte alta della piramide della complessità, e quindi non rispondono al momento ai problemi posti qui. Le aziende sono poco interessate ad applicare questi schemi sulla parte bassa perché non hanno grande impatto sulla produttività.
I salari orari minimi tendenzialmente sono molto bassi rispetto alla media dei salari di un Paese. Alzarli per legge costringendo tutte le aziende ad alzare i costi del lavoro senza contestuali aumenti di produttività avrebbe lo stesso effetto di contrattazioni sui CCNL dure, ovvero la fuga delle aziende dal paese.
Questo quindi è uno di quei temi politicamente fondamentali su cui stiamo navigando a vista. L’unica intuizione di fondo è che dobbiamo cambiare il mondo della formazione, per creare un’umanità più preparata al futuro. Ma anche qui non ci sono idee chiare su come.
Twitter @lforesti