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Ma il Jobs Act non doveva mettere fine al precariato?
Nel valutare la riforma del lavoro del 2015, è doveroso partire dagli obiettivi iniziali. Tra questi, uno tra i principali, era il miglioramento della qualità dell’occupazione. Sia la riduzione delle tutele ai lavoratori, tramite la tanto discussa abolizione dell’articolo 18 e l’introduzione del sistema a tutele crescenti, che la decontribuzione, avrebbero dovuto incentivare le imprese ad assumere con i nuovi contratti a tempo indeterminato.
In effetti, nel 2015, il primo anno di attuazione delle riforme, si è verificato un notevole aumento della quota di contratti a tempo indeterminato, che sono arrivati a costituire l’81% della crescita occupazionale. Se fino a pochi mesi fa era difficile distinguere quale delle due misure avesse prodotto questo effetto, i dati più recenti sembrano offrire una risposta chiara. Infatti, nel 2016 la decontribuzione totale è terminata e contestualmente si è verificato un vistoso calo della quota di nuovi contratti a tempo indeterminato, crollata al 27%. I contratti temporanei sono tornati a essere lo strumento preferito dalle aziende, arrivando a costituire il 73% della crescita occupazionale.
Rielaborazione su dati Istat
L’incentivo monetario si è quindi rilevato molto più efficace nell’indirizzare il comportamento delle aziende e il Governo sembra intenzionato a proseguire su questa strada. Infatti, nell’ultima legge di bilancio, sono previsti nuovi incentivi per l’assunzione dei giovani, simili a quelli creati nel 2015 con il Jobs Act. Le aziende che nel 2018 assumeranno personale under 35 con contratti a tutele crescenti, beneficeranno infatti di uno sconto triennale sui contributi previdenziali pari al 50% (100% al Sud). Nei due anni successivi la misura sarà poi estesa agli under 30. La legge di bilancio prevede anche uno sgravio del 100% in caso di assunzione dei ragazzi che sono stati ospitati dall’azienda nel quadro dell’alternanza scuola-lavoro o per periodi di apprendistato.
Vi è quindi una sostanziale differenza rispetto alla decontribuzione del 2015: l’obiettivo del governo questa volta è il miglioramento dell’occupazione giovanile. Il governo stima di favorire la stipulazione di 350 mila nuovi contratti a tempo indeterminato nel 2018 per giovani sotto i 35 anni, la trasformazione di 53mila contratti di apprendistato e l’assunzione di 18.900 giovani post alternanza scuola lavoro.
La scelta dei beneficiari della decontribuzione appare giustificata dai dati relativi all’occupazione nelle fasce d’età più giovani. Il nostro paese si conferma in testa a livello europeo (OCSE 2016) nella quota di NEET (under 30 che non studiano e non ricercano un lavoro) e, tra gli 1,5 milioni di disoccupati in Italia, troviamo ben 707mila appartenenti alla fascia 15-34 (Istat).
Perché l’incentivo legislativo non ha funzionato?
Il contratto a tutele crescenti introdotto dal Governo si rifà, nei suoi principi ispiratori, alla proposta di contratto unico degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi. L’idea era di includere in un’unica tipologia contrattuale sia la fase di inserimento del lavoratore che la fase di stabilità, in modo da coniugare l’esigenza dell’azienda di un periodo di prova dopo l’assunzione e la necessità di stabilità lavorativa del dipendente. Il nuovo contratto avrebbe dovuto essere più conveniente rispetto alle altre alternative, in modo che le imprese lo preferissero naturalmente. Il contratto unico, una volta diventato la tipologia dominante, avrebbe relegato l’uso di contratti a termine a casi circoscritti e motivati.
L’obiettivo era quello di risolvere il cronico dualismo del mercato del lavoro italiano, generato dalla riforma Treu e dalla legge Biagi. Queste riforme hanno creato quello che lo stesso Tito Boeri ha definito “un vero e proprio apartheid”: i nuovi assunti con contratti precari lavorano al fianco di lavoratori a tempo indeterminato, che spesso svolgono mansioni analoghe ma godono di tutele radicalmente differenti.
Rielaborazione dati Istat
Da un lato vi sono alcune categorie di lavoratori, generalmente più anziani, altamente sindacalizzate, coperte da tutele e da contratti a tempo indeterminato. Dall’altro invece, le generazioni più giovani, o i lavoratori di settori non tradizionali, si trovano a lavorare in modo discontinuo e incontrano difficoltà insormontabili nell’accumulo anche solo dei minimi contributi previdenziali necessari.
Già nel 2015, vari economisti, tra cui Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, e gli stessi proponenti Tito Boeri e Pietro Garibaldi, analizzavano su lavoce.info gli effetti nefasti del decreto Poletti del marzo 2014. Il decreto ha liberalizzato l’utilizzo dei contratti a termine, permettendone il rinnovo per cinque volte nel corso di tre anni senza la necessità di una causale. Il datore di lavoro non ha quindi nessun motivo per preferire il contratto a tutele crescenti o anche l’apprendistato.
Di conseguenza, i contratti a tempo determinato rischiano di diventare, sempre più, la forma di rapporto di lavoro dominante. Questo grave fenomeno rischia di mettere in pericolo la sostenibilità del sistema pensionistico (come ha recentemente ricordato il presidente dell’INPS) e ha anche effetti negativi sulla crescita economica. La precarizzazione, infatti, favorisce l’emigrazione di giovani formati in Italia e disincentiva gli investimenti in formazione da parte delle imprese, proprio nel momento in cui si cerca di agire in modo opposto tramite i crediti d’imposta introdotti con la nuova legge di stabilità.
L’estremo dualismo del mercato del lavoro italiano è considerato, da varie analisi accademiche, tra le principali cause della bassa competitività del Paese, il contratto a tutele crescenti era nato come strumento per ridurlo, ma gli effetti perversi del decreto Poletti hanno portato ad un inasprimento del problema.
Perché la riforma abbia gli effetti sperati, bisognerebbe rendere le altre tipologie meno appetibili rispetto al contratto a tutele crescenti: il primo passo è ridurre la possibilità di rinnovare così facilmente il tempo determinato, apportando modifiche sostanziali al Decreto Poletti.
Twitter @Tortugaecon