categoria: Econopoly
Il dialogo, la tecnologia che ci serve davvero
Email, Cellulari, Big Data, Intelligenza Artificiale, Internet of Things, Social Networks. Quando nelle nostre aziende pensiamo all’innovazione e alla tecnologia oggi sono queste le parole chiave che usiamo.
Io credo che la tecnologia più potente e che fa la differenza oggi sia un’altra: il dialogo tra gli esseri umani.
Da Wikipedia: Il termine dialogo (dal latino dialŏgus, in greco antico διάλογος, derivato di διαλέγομαι «conversare, discorrere» composto da dià, “attraverso” e logos, “discorso”) indica il confronto verbale che attraversa due o più persone come strumento per esprimere sentimenti diversi e discutere idee non necessariamente contrapposte.
Ancora Wikipedia: Il termine tecnologia è una parola composta derivante dal greco “tékhne-logìa”, cioè letteralmente “trattato sistematico su un’arte”.
Per dialogo come tecnologia qui intendo un sistema strutturato per creare valore attraverso la contribuzione di più persone che interagiscono tra loro attraverso delle regole di ingaggio.
Qui si intende esattamente il dialogo tra due fino a poche persone (nella mia esperienza non più di 5) in presenza fisica e con sufficiente tempo per dipanarsi.
Per lungo tempo non capivo il motivo per cui, date le nuove tecnologie sulla comunicazione, le persone in tutto il mondo continuavano a convergere verso grandi agglomerati urbani, con tutti i temi di prezzi e mobilità connessi. Perché non si può vivere in luoghi più verdi, con una qualità della vita migliore, a ritmi più rilassati, senza doversi sobbarcare gli spostamenti giornalieri che drenano tempo ed energie? E la risposta sta proprio nella potenza immensa del dialogo come tecnologia organizzativa e produttiva.
Innanzitutto le persone devono conoscere e praticare le regole della logica, senza le quali si finisce rapidamente in vicoli ciechi. I dialoghi non possono essere privi di confini (ognuno dice quello che gli passa per la mente) ma devono essere inseriti dentro a limiti condivisi che portano a concordare sul metodo con cui si procede. Ciò che nei dialoghi, all’inizio, può e deve dividere, sono i valori di riferimento e i pesi che le persone danno ai temi.
Bisogna poi conoscere ed evitare come la peste i “bias” psicologici, ormai ultra-noti e studiati. Basta mettere su Google “bias psicologici” per trovarne lunghe liste e adeguate spiegazioni. I bias sono sabbia e fastidio dentro agli ingranaggi di un buon dialogo. Sono una perdita di tempo e una perdita di focus, perché sono affermazioni false vissute da molte persone come vere. Persone perfettamente coscienti di quali sono tali bias e che quando ne vedono uno lo riconoscono e lo evitano sono capaci di dialoghi molto migliori.
La presenza fisica è fondamentale per due ragioni: di flusso di informazioni e di emotività. Quando parliamo con un’altra persona fisicamente la quantità di informazioni che ci sta trasmettendo è molto più ampia delle semplici parole. Il suo viso è pieno di segnali, coscienti e incoscienti. Il suo corpo anche. Questi, con ottimi sistemi di comunicazione digitale potrebbero anche essere colti in una video-conferenza. Ma poi mancherebbe la componente emotiva legata alla fisicità. Toccarsi, sentire gli odori degli altri, vedere i dettagli che accadono e che non potrebbero essere colti da una videocamera, sono tutti elementi che cambiano l’esperienza.
Il dialogo poi è lo strumento per inserire dentro a un unico contenitore le menti, le conoscenze e le curiosità di diverse persone. Il risultato del dialogo ben fatto è quasi sempre un’immensa espansione delle possibilità e della profondità di analisi. Il mix di persone che partecipano al dialogo è quindi scelta fondamentale. Persone perfettamente uguali funzionano meno che persone con competenze complementari. Persone che concordano sui valori e i pesi ai vari temi funzionano di meno rispetto a persone che hanno valori e pesi diversi.
Il collante fondamentale dei dialoghi è la curiosità. Se le persone non sono curiose di conoscere e capire, il dialogo non funziona.
I dialoghi possono essere orientati ad affrontare un problema specifico, ma ancora più importanti sono i dialoghi continui che avvengono in modalità “serendipity”. Di fatto significa che le persone si conoscono e quindi sanno quali sono interessi e competenze reciproche e quando iniziano il dialogo non sanno esattamente di cosa parleranno, ma sanno che alla fine qualcosa di buono verrà fuori.
Senza fiducia reciproca il dialogo muore. Se le persone pensano che quello che diranno potrà in futuro essere usato contro di loro attivano un filtro pesante a ciò che possono dire e la qualità del dialogo evapora. Ecco perché nelle istituzioni dove il tasso di fiducia reciproco è basso non c’è comunicazione, quindi si commettono errori macroscopici ed evidenti a un osservatore esterno, che chi sta dentro non vede.
I migliori dialoghi sono quelli in cui i rispettivi poteri non contano nulla: conta solo la qualità delle idee espresse. L’ultimo degli stagisti deve poter partecipare a un dialogo con l’amministratore delegato senza problemi, se ha la capacità di instaurare buoni dialoghi.
Il dialogo permette di affrontare in diretta ogni nuova informazione o valutazione che venisse fuori, dove l’uso di altri strumenti, come ad esempio l’e-mail, sono molto meno efficaci. Ecco perché dobbiamo abbattere pesantemente l’uso delle email, soprattutto per tutto ciò che non è informazione e dati.
La costruzione di una cultura in cui il dialogo viene vissuto come strumento di lavoro, coltivato nella sua preparazione ed esecuzione, è quindi la tecnologia più importante che una istituzione debba sviluppare. Richiede investimenti ingenti di tempo, energie e leadership. È difficile, a partire dal decidere in modo esplicito di farla diventare la più importante delle tecnologie usate.
Oggi è raro vedere buoni dialoghi nelle nostre aziende. Ed è invalso l’uso di considerare questo un effetto della nostra cultura, degli interessi delle persone o addirittura di come l’uomo è fatto in generale.
Con un buon dialogo alla volta si può cambiare il mondo.
Twitter @lforesti