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I giovani, l’Europa e il capitale umano
Il G7 dei paesi industrializzati si incontra a Venaria per parlare di lavoro ed economia. Talvolta i due temi sembrano prendere le distanze tra loro. Con l’economia che viene “trascinata” dalla finanza (specialmente quella creativa) verso strade solitarie, mentre il lavoro senza i capitali di cui necessita (forza lavoro, finanza e macchine) sta lì abbandonato in un angolino, come l’orfano di Oliver Twist, mendicando un altro piatto di minestra.
Una nuova sfida si affaccia in occidente, la sfida digitale: big data, robotica avanzata, persino la moderna Germania teme la troppa modernità nel mondo del lavoro e il rischio (non discuto in questa sede se sia un timore fondato o percepito) che i migranti possano influenzare negativamente le aspettative lavorative dei tedeschi.
C’è un tema che l’Europa dovrà affrontare nel suo futuro. Un tema, in vero, da cui dipende il futuro dell’Europa. Il capitale umano è un concetto che ancora si discute poco in Italia. Stando ai dati del 2017 Global Human Capital Index del World Economic Forum si evince che solo 25 nazioni hanno avuto modo di sviluppare oltre il 70% (o più) del loro capitale umano. L’indice copre 130 nazioni, interessando circa il 93% della popolazione mondiale.
Ma cosa si intende per capitale umano? Il concetto è piuttosto semplice: sono le conoscenze e le abilità delle persone posseggono che permettono loro di creare valore nel sistema economico mondiale.
Nell’intero globo varie categorie di individui non trovano un’occupazione che li valorizzi e soprattutto che possa dare la massima performance alle loro abilità. Le donne per esempio sono colpite dalla discriminazione (pensiamo agli stipendi differenti, legislazioni statali penalizzanti etc..). Gli anziani, malgrado l’età, vorrebbero continuare a lavorare. I giovani, fin troppo spesso, soffrono il male della disoccupazione. Il concetto di formazione una tantum (elementari, medie, liceo, università) è un percorso che dovrebbe essere riscritto.
E’ importante che si possa investire in formazione e aggiornamenti per quei (circa) tre miliardi di persone, nel mondo, che già oggi lavorano e che hanno già ultimato il percorso di studi “classico”.
La quarta rivoluzione industriale, quella che comunemente conosciamo come industry 4.0, permette a molti cittadini occidentali di avere lavori meglio remunerati e interessanti. Potendo coordinare differenti fasi di una stessa produzione (per esempio).
Questo evento epocale tuttavia comprende anche delle sfide molto importanti. Il rischio di una crescente disoccupazione per gli unskilled dovrebbe spingere le economie più mature a rivalutare l’intero concetto di istruzione. Passare quindi da un processo di una tantum, a una visione di formazione permanente.
Le grandi multinazionali hanno già incarnato, nel loro approccio, una continua formazione. Molte hanno compreso che una risorsa umana versatile e sempre aggiornata è un capitale umano con un valore crescente.
Quando si passa alle Piccole medie imprese, che non hanno una visione globale, questa formazione continua diviene lacunosa o del tutto mancante. Il costo della formazione è visto come un incidente nei bilanci, un qualcosa che si può anche evitare. Lasciando (nel migliore dei casi) al singolo dipendente l’onere economico e di tempo da dedicare extra lavoro.
Una visione di breve termine che, potenzialmente, nell’immediato può aiutare a contenere i costi. Ma sul lungo, scaricando oneri sul dipendente, rischia di innescare processi negativi: il dipendente può decidere di abbandonare l’azienda, ponendo l’azienda stessa nella scomoda posizione di formare una risorsa da zero (con costi aggiuntivi maggiori), può perdere entusiasmo (ritenendo che l’azienda non lo valorizzi abbastanza) e quindi divenire meno produttivo. E così via.
Arriviamo al tema Europa e giovani. Il vecchio continente sta invecchiando. E, tuttavia, una intera generazione di giovani (i millennials) rischia di venir esclusa da tutte le aree decisionali. Da un lato vi è il rischio che la formazione per loro possa essere di minor qualità rispetto a quella della generazione precedente (gli X gen). Dall’altro c’è una sorta di sfida generazionale in cui i vecchi vedono un valore molto relativo nei giovani. Il tutto in un momento in cui l’Europa affronta la sfida della quarta rivoluzione. Creare un percorso lavorativo, quindi, non è solo un dovere civico, ma una necessità per la continuazione dell’Europa come oggi la conosciamo.
Il tema lavoro per i giovani è anche un asset politico che, negli ultimi decenni, è stato sottovalutato. Per quanto sia una tesi controversa, si può dire che una situazione lavorativa incerta può portare a ragionare con maggior istintività e minore razionalità. La sfida della quarta rivoluzione è un’opportunità, se colta correttamente, per integrare nella società civile piani di formazione continua e ampie fette di società come i giovani e le donne; se presa per il verso sbagliato sarà la ricetta per la fine dell’Europa come la si conosce.
I movimenti populisti, come vengono definiti dai giornali, spesso mirano a fermentare il discontento tra la popolazione che non ha una visione lavorativa certa.
Questa è una sfida che l’Europa deve comprendere e che le singole aziende (ancora di più le grandi multinazionali) devono abbracciare per un futuro europeo.
In tal senso avrò il piacere di moderare domenica 1 ottobre, in Università Cattolica, un panel di discussione dove manager di Eni, Generali, World Economic Forum, Deutsche Bank, discuteranno le loro esperienze sul tema Europa.
L’evento, parte della tre giorni di #shapeeu17, organizzato dai Global Shapers, organizzazione creata dal World Economic Forum, vuole offrire una visione multiculturale sulle sfide che ci attendono. Oltre un centinaio di giovani europei con formazioni, visioni e interessi diversi che si ritroveranno per affrontare le sfide di un futuro che ancora è tutto da plasmare.
Twitter @EnricoVerga