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Pensioni e iniquità intergenerazionale: vulnus da sanare con la tassazione progressiva
Questo post è stato scritto con Alessandro Sassi, laureato triennale in Economia & Management all’Università Carlo Cattaneo-LIUC di Castellanza con una tesi sulle disuguaglianze intergenerazionali nel sistema pensionistico italiano –
Nei mesi estivi i sindacati sono tornati alla carica tutelando il loro azionista di maggioranza: i pensionati. In modo compatto Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto di rimandare l’applicazione della Legge Fornero sull’adeguamento dell’età pensionabile alla maggiore speranza di vita. Ascoltati dal ministro del lavoro Giuliano Poletti – con il quale si intendono bene – i sindacati ambiscono pervicacemente a un disegno volto ad oscurare il fatto che più si vive, più servono contributi per pagare la propria pensione per un maggiore numero di anni.
Per fortuna, oltre alla contrarietà del presidente dell’Inps Tito Boeri – la miglior nomina by far del governo Renzi – nel mese di agosto è intervenuta la Ragioneria Generale dello Stato, che ha illustrato, numeri alla mano, come derogare all’aumento della speranza di vita significhi una spesa pensionistica fuori controllo, quando l’Italia è il Paese in Europa che già ora spende di più in pensioni rispetto al Pil (16,5%).
In realtà malgrado i recenti interventi legislativi il nostro sistema pensionistico è ancora ben lungi dall’essere equo e coerente. Proprio per questa ragione, i moniti lanciati a più riprese da Tito Boeri riguardo alla presenza di pensioni troppo elevate rispetto ai contributi versati dovrebbero essere presi molto seriamente, domandandosi nel contempo se esistano soluzioni diverse dalla rassegnata accettazione di quella che è ormai un’annosa questione. Naturalmente, non è pensabile andare ad agire in maniera retroattiva, colpendo situazioni che, seppur eccessivamente favorevoli, sono state ottenute in ottemperanza alle leggi allora vigenti.
Ebbene, un’idea che garantisce a un tempo regolarità e giustizia consiste nella tassazione delle pensioni retributive, per la parte che eccede l’equità attuariale. Proprio perché di imposta si sta parlando, non bisogna nemmeno dimenticare quanto disposto dalla Costituzione riguardo al principio di capacità contributiva soggettiva e alla progressività a cui è informato il nostro sistema tributario (art. 53).
Antonio Massarutto sulla voce.info ha proposto una “pension tax”, ossia un’imposta specifica, destinata espressamente ai redditi pensionistici (che verrebbero contestualmente sottratti dal cumulo dei redditi tassati dall’imposta personale Ire) e disegnata con il fine di incidere di più sulle pensioni caratterizzate da una maggiore quota di privilegio.
I diritti acquisiti – come nel caso delle pensioni calcolate con il sistema retributivo – sono in realtà veri e propri privilegi acquisiti, frutto di un’idea distorta del welfare largamente diffusa nel nostro Paese. Anche il commissario alla spending review Yoram Gutgeld, ha sostenuto di recente in un’intervista a Federico Fubini sul Corriere della Sera che “bisognerebbe arrivare a toccare i diritti acquisiti delle pensioni medie da 2.000-2.500 euro lordi al mese quando non sono sostenute da contributi adeguati. Lì ci sono limiti oggettivi: mancano i dati sui contributi più antichi e siamo vincolati dalla Corte Costituzionale”.
Proprio perché il divario di reddito e ricchezza tra classi over 55 e classi under 30 si sta allargando paurosamente (vedasi dati di Bankitalia sulla ricchezza degli italiani), avrebbe molto senso prevedere una tassazione della pensione a seconda che i contributi siano stati versati o meno. Per la parte “regalata”, la tassazione – rispettando il monito della Corte Costituzionale che ammette la possibilità di toccare diritti acquisiti a patto di ispirarsi al criterio della ragionevolezza – deve prevedere una struttura di aliquote marcatamente progressive. In questo modo cadrebbero anche le lamentele di chi sostiene di aver versato una “marea di contributi” e quindi di meritare una pensione alta. Se i contributi versati rivalutati ci sono, nessuno toccherà la sua “pensione d’oro”.
Questi vulnus intergenerazionali del nostro Paese sono destinati a non essere mai completamente superati, almeno fino a quando non si riconoscerà che, da diversi anni, stiamo attraversando un periodo di profonda crisi morale e valoriale: non è facile agire secondo equità se la giustizia è un concetto quasi sconosciuto, così come è arduo predicare solidarietà ad un popolo che nell’arco della sua storia ha dimostrato di essere unito solo a tratti. Rita Levi Montalcini diceva: “Il male assoluto del nostro tempo è di non credere nei valori. Non ha importanza che siano religiosi oppure laici. I giovani devono credere in qualcosa di positivo e la vita merita di essere vissuta solo se crediamo nei valori, perché questi rimangono anche dopo la nostra morte”. Ebbene, è un dovere di ciascuno di noi rimettere al centro del nostro vivere i valori che vogliamo siano la base per il mondo in cui vivremo domani. Con i nostri figli.
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