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Google, la mega multa e il problema del potere delle economie di piattaforma
Pubblichiamo un post di Edoardo Garibaldi, giornalista free-lance e junior tutor alla scuola di giornalismo della Luiss –
La Commissione europea ha multato con 2,42 miliardi di euro Google per abuso di posizione dominante: avrebbe infatti favorito il proprio servizio di comparazione dei prezzi rispetto agli altri. Big G è entrato nelle nostre vite, insieme alle applicazioni quotidiane delle nuove tecnologie, rivoluzionando il contesto all’interno del quale noi agiamo. Le nostre esistenze ne hanno tratto giovamento e miglioreranno ancora, ma la decisione di Bruxelles potrebbe accendere un faro sulla non neutralità delle economie di piattaforma e darci una mano a immaginare cosa potrebbe essere il mondo di domani.
Per McKinsey la tecnologia mette a rischio oltre un miliardo di posti di lavoro e lo stesso funzionamento efficiente del mercato potrebbe essere in pericolo. Fino ad oggi le reazioni da un lato sono state paraluddiste: “dagli al robot”, “tassa il robot”. Dall’altro si è invocato il laissez faire per lasciare che il mercato operi liberamente e trovi il suo equilibrio. Ma i fatti ci dicono che entrambe le posizioni non rappresentano una soluzione, fosse solo per il fatto che la tecnologia è già nelle nostre vite e va a una velocità così elevata da rappresentare una barriera di ingresso ai mercati a volte insormontabile.
Il grande successo dei colossi tecnologici si giustifica con l’utilità che i loro prodotti hanno per noi. Vivere senza uscire di casa è possibile: praticamente tutto è acquistabile online e può essere consegnato nell’arco della stessa giornata. Sulla borsa americana, secondo le ultime stime, il 60% delle transazioni è effettuato con gli Hft, i software che scambiano prodotti finanziari ad altissima frequenza. Le future applicazioni dei programmi di machine learning, la possibilità che le macchine avranno di apprendere dalla propria esperienza e dall’enorme quantità di dati che vengono immessi nella rete, potrebbero farci dire che “le persone non servono”. Almeno è quello che sostiene Jerry Kaplan nel suo ultimo libro pubblicato da Luiss University Press ( “Le persone non servono”, pp.198, 18€).
Le intelligenze artificiali applicate alle macchine, spiega il veterano della Silicon Valley, hanno delle possibilità di sviluppo che non riusciamo a immaginare. Il motivo di questa “ignoranza” è lo stesso per il quale i “feedback loop”, causa scatenante del “flash crash” del 6 maggio del 2010 (raccontato in maniera chiara da Enrico Marro su Il sole 24 Ore) dicono poco alla maggior parte della gente. La velocità con la quale la tecnologia si è sviluppata non ci ha permesso di dare un nome alle cose. Siamo ancora convinti che le macchine facciano quello che sono state programmate a fare, ma nel prossimo futuro non sarà così. Semplificando al massimo, l’utilità di avere un Robot che vada a ritirare gli abiti in lavanderia, la possibilità di avere un sistema di trasporto completamente automatizzato e senza guidatori, imporrà ai programmatori di fornire alle macchine dei semplici prinicipi che poi queste declineranno per agire in un modo che riterranno corretto.
Oltre a rappresentare un problema giuridico, per Kaplan dovremo infatti porci il problema di come “punire” le intelligenze artificiali, l’esplosione tecnologica potrebbe rappresentare una criticità per la società basata sul sistema di produzione capitalistico. Il problema della sostituzione della forza lavoro umana con robot automatizzati è già attuale. Anche nel giornalismo, un lavoro considerato intellettuale, le grandi aziende come Thomson Reuters e Bloomberg, hanno degradato i take sulle trimestrali delle aziende quotate a facilities. Sono i software a redigere quello che prima scrivevano i giornalisti: minimizzano la possibilità di errore e i costi. Lo stesso sta accadendo per gli avvocati in certe pratiche. Per dare l’idea della grandezza del fenomeno basta citare uno studio del McKinsey Global Institute, il centro studi della società di consulenza americana. Approssimativamente il 50% delle mansioni svolte dagli umani sono sostituibili dalla tecnologia attuale. In termini equivalenti stiamo parlando di 1,2 miliardi di posti di lavoro a tempo indeterminato per 14,6 migliaia di miliardi di dollari di salari. Figurarsi domani.
Bill Gates ha proposto di inserire una tassa sui robot. Jerry Kaplan propone invece di legare un sistema di incentivi fiscali alla rarefazione dell’azionariato delle grandi aziende. Egli prevede infatti una elevata concentrazione sia all’interno dei settori industriali, che all’intero della compagine azionaria stessa. Così, se tutto dovesse rimanere come adesso, sarebbero in pochi a trarre vantaggio dall’utilizzo della tecnologia e in molti a subire, con la perdita del reddito e del lavoro. Meglio incentivare l’azionariato diffuso. A seconda dell’approccio ai problemi economici si può essere più o meno d’accordo con l’una o con l’altra soluzione, ma la questione non può essere negata. Lo Stigler Center della Chicago University, sicuramente non un covo di statalisti marxisti, ha lanciato un ciclo di incontri: “Is there a concentration problem in America?”.
Dopo l’acquisizione di Whole Foods per 13,7 miliardi di dollari, Amazon viaggia stabilmente intorno ai mille dollari ad azione e si è dimostrata capace di poter essere “tutto”. Raccoglie oltre il 43% del mercato di acquisti online degli Stati Uniti e ha fatto proprio il 53% della crescita del mercato. Per Lina Khan, alcuni aspetti del comportamento del gigante di Seattle – la decisione di sopportare perdite miliardarie prima di cominciare di andare in nero – sollevano preoccupazioni anticoncorrenziali. Così, aggiunge nel post pubblicato da ProMarket, “l’attuale orientamento dell’antitrust (americano ndr) non riesce a cogliere l’architettura del potere che si sviluppa nell’economia di piattaforma. Vedendo la concorrenza attraverso il prisma degli effetti di breve termine sui prezzi, l’approccio che valuta il benessere dei consumatori ignora i seri problemi che potrebbero causare. Amazon rappresenta il fallimento di questo regime”, si legge nel post.
Roni Michaely, professore alla Cornell University, intervistato da ProMarket, sostiene che sia “evidente senza alcuna ambiguità l’aumento della concentrazione distribuita nei diversi settori dell’industria”.
Per Michaely la prova risiede nel numero delle aziende quotate, quasi dimezzato dal ‘95 a oggi, e nell’aumento significativo dell’indice “Return on assets” oltre che nei margini di profitto delle imprese dei settori a maggiore concentrazione. Per lui i motivi sono due. Oltre al mancato intervento dell’antitrust americano a partire dalla fine degli anni ‘90, i cambiamenti tecnologici e gli alti costi fissi che essi impongono rendono i mercati difficilmente penetrabili.
La decisione della Commissione europea su Google farà discutere dividendo presumibilmente il mondo in parti contrapposte. Forse un’ulteriore conferma che il problema esiste.
Twitter @12edoardo