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I fondi pensione, questi sconosciuti (per tre quarti dei lavoratori)
Nella recente relazione del presidente Mario Padula della Covip – autorità di vigilanza su fondi pensione e casse di previdenza – si evidenzia come il settore della previdenza complementare abbia ancora molta strada da fare. Alla fine del 2016 le risorse destinate alle prestazioni delle forme pensionistiche complementari ammontano a 151,3 miliardi di euro. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito – sistemi mercatocentrici – siamo a cifre incomparibilmente più alte. Nei Paesi avanzati i fondi pensione giocano un ruolo rilevante sui mercati, che ne hanno un beneficio in termini di efficienza e stabilità.
La relazione annuale è densa di dati interessanti. “Il numero di iscritti effettivi alla previdenza complementare è stimabile in circa 7,170 milioni. Quanto alla dimensione patrimoniale, le risorse complessivamente destinate alle prestazioni totalizzano 151,3 miliardi di euro, il 7,8 per cento in più rispetto al 2015; esse si ragguagliano al 9 per cento del PIL e al 3,6 per cento delle attività finanziarie delle famiglie italiane”.
L’offerta è a dir poco variegata: “Le forme pensionistiche complementari operanti nel sistema alla fine del 2016 sono 452, costituite da: 36 fondi pensione negoziali, 43 fondi pensione aperti, 78 piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP) cosiddetti “nuovi” e 294 fondi pensione preesistenti; il totale comprende FONDINPS, la forma istituita presso l’INPS che accoglie i flussi di TFR dei lavoratori silenti per i quali gli accordi collettivi non prevedono un fondo di riferimento”.
Urge consolidamento e maggior concentrazione dell’offerta, per raggiungere una maggior efficienza e quindi minori costi per i sottoscrittori, che avrebbero, in cambio una pensione integrativa più alta. “Costs matter”, sostiene con vigore il grandissimo John Bogle, fondatore di Vanguard.
Con un livello bassissimo di cultura finanziaria, non ci si può aspettare che un risultato deludente a livello di partecipazione dei lavoratori. Come è scritto nella relazione, “il grado di diffusione della previdenza complementare può essere correttamente calcolato rispetto a una platea potenziale di 25,770 milioni di unità nella media del 2016. Considerando il numero di iscritti effettivi a livello di sistema (ossia al netto delle adesioni multiple) pari a circa 7,170 milioni, il tasso di partecipazione a fine 2016 si attesta al 27,8%. Era il 26% a fine 2015”. Di fatto, 3 italiani su quattro non sanno cosa sono i fondi pensione. Il sito della Covip – d’anteguerra – non aiuta.
Coloro che non si avvalgono dei fondi pensione negoziali rinunciano al contributo del datore di lavoro sulla parte del TFR – quasi sempre garantito a livello di accordi aziendale. Se il lavoratore dà di contributo volontario il 2% della retribuzione lorda, il datore di lavoro gli regala (dal cielo piovono soldi veri!) un 2%. Come si fa poi a paragonare il rendimento del TFR (che non beneficia del contributo del datore di lavoro) con il rendimento del fondo pensione negoziale (qualunque esso sia)? Mistero.
I professionisti e i lavoratori autonomi che non hanno un proprio fondo negoziale, se non sottoscrivono ogni anno 5.164 euro di fondo pensione rinunciano al beneficio fiscale di circa 2mila euro l’anno (con l’ipotesi di una tassazione marginale al 40%). 2mila euro l’anno che l’Agenzia delle Entrate ti regala. Come mai molti rinunciano a incassare 2mila euro l’anno? Mistero.
I giovani devono svegliarsi (e documentarsi “conoscere per deliberare”, diceva Luigi Einaudi)! Non sono probabilmente a conoscenza dei numerosi vantaggi della previdenza complementare. “Secondo l’età si osserva che, a fronte di un valore medio del 28,3 per cento, il tasso di partecipazione calcolato rispetto alle forze di lavoro è il 19% tra gli individui con meno di 35 anni; esso sale al 27 per cento nelle fasce di età compresa fra 35 e 44 anni e al 34 per quelle tra 45 e 64 anni. Secondo il genere, il tasso di partecipazione è del 30,8% per gli uomini e del 25,2 per le donne”. Le donne sono ancora meno interessate degli uomini. Molto male.
Italiani troppo prudenti (nel lungo termine è perdente)
Le cifre sulla eccessiva prudenza dei lavoratori lascia esterrefatti: “In termini di scelte tra le diverse opzioni di investimento offerte dalle forme di nuova istituzione, si osserva la prevalenza dei comparti caratterizzati da una minore quota di azioni: circa la metà degli iscritti è concentrata nei comparti garantiti e il 18% in quelli obbligazionari; nei comparti bilanciati e azionari si colloca il residuo 32% degli aderenti”. Metà degli iscritti opta per non guadagnare nulla, il comparto garantito prevede rendimenti nulli a tendere, visto che la cedola sulle obbligazioni serve a pagare la garanzia. Siamo nel mondo di utopia (vi ricordate Adriana Zarri da Santoro?).
“Guardando alle diverse tipologie di forma pensionistica, circa un quarto degli iscritti ai fondi negoziali e aperti ha optato per comparti garantiti; nei PIP, le gestioni separate tipicamente assistite da garanzia costituiscono il prodotto più diffuso (quasi i tre quarti degli iscritti). Nei fondi aperti, oltre la metà degli aderenti è in linee bilanciate e azionarie; nei fondi negoziali, resta molto esigua la percentuale di iscritti a comparti prevalentemente azionari”.
Le garanzie costano. E il rendimento non può che essere assai limitato. Con i tassi di interesse ai minimi termini, bel sotto la media storica, da dove si pensa posso arrivare il rendimento? Da opzioni put che proteggono dai ribassi – che nel lungo termine sono solo vantaggiosi per l’investitore perché consentono di comprare più azioni a parità di ammontare investito? Il ragionamento dell’italiano medio (ignorante, nel senso che ignora la realtà) è il seguente: “Siccome i mercati sono brutti e cattivi, aderisco al comparto garantito così sono in una botte di ferro”. L’esposizione azionaria, “calcolata includendo anche i titoli di capitale detenuti per il tramite degli OICR, si è attestata al 24,8%, in lieve aumento rispetto all’anno precedente”.
I rendimenti
Nonostante la bassa esposizione azionaria, grazie alle politiche quantitative delle banche centrali di mezzo mondo – che hanno comprato sia titoli di Stato che obbligazioni corporate, facendone scendere il rendimento – il rendimento dei fondi pensione è stato superiore al rendimento del TFR (che si calcola così: 1,5%+75% dell’inflazione).
“Nel 2016 i rendimenti aggregati, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, sono stati in media positivi per tutte le tipologie di forma pensionistica e per i rispettivi comparti; essi sono stati superiori al tasso di rivalutazione del TFR. I comparti azionari hanno guadagnato in media il 4,4% nei fondi negoziali e il 3,2 nei fondi aperti; si sono attestati al 6% nei PIP. Per le linee bilanciate, si sono registrati rendimenti del 3,2% nei fondi negoziali e del 2,7 nei fondi aperti; dell’1,5% per i PIP. I comparti obbligazionari puri hanno reso lo 0,2 per cento nei fondi negoziali e l’1,3% nei fondi aperti; per quanto riguarda gli obbligazionari misti, risultati più elevati sono stati registrati nei fondi negoziali (3,2%) rispetto ai fondi aperti (1,4%). Le linee obbligazionarie dei PIP hanno ottenuto un rendimento dello 0,4%. Per i comparti garantiti, si sono avuti rendimenti dello 0,8% nei fondi negoziali e dello 0,7 nei fondi aperti”.
Se prendiamo in considerazione un periodo più lungo, i risultati si confermano positivi: “Negli ultimi cinque anni, periodo nel complesso favorevole per i mercati finanziari, il rendimento medio annuo composto è stato del 5,2% per i fondi negoziali e del 5,9 per i fondi aperti. Per i PIP si è attestato, rispettivamente, al 6,4% per i prodotti unit linked e al 2,8 per le gestioni separate. Nei comparti azionari si sono avuti i risultati migliori, con valori medi compresi tra l’8 e il 9%; il tasso di rivalutazione medio annuo del TFR è stato pari all’1,7%.
Su un periodo di osservazione più ampio, che comprende la fase di avvio dell’operatività delle forme complementari nonché diversi periodi di turbolenza dei mercati finanziari, il rendimento medio annuo composto dei fondi pensione negoziali è comunque positivo (3,1%) e superiore a quello del TFR (2,5%). Sullo stesso periodo, i fondi pensione aperti, caratterizzati da un’esposizione azionaria maggiore, hanno reso in media l’1,9% all’anno (intorno al 3% per i comparti obbligazionari e all’1,3 per quelli azionari).
Ha perfettamente ragione il presidente della Covip Padula a rimarcare come “l’invecchiamento della popolazione e le sue conseguenze economiche rappresentano una sfida alla quale le politiche sociali non possono sottrarsi”. E’ vitale che i giovani lavoratori aderiscano ai fondi pensione – soprattutto quelli negoziali che costano pochissimo – e che scelgano comparti azionari affinché le loro pensioni integrative siano maggiori possibili. Ne va del loro futuro.
Twitter @beniapiccone