L’economia della cultura è una straordinaria palestra per l’impresa che cambia

scritto da il 10 Giugno 2017

In questi ultimi giorni mi sono trovato a riflettere sull’esperienza accumulata in quella che i più chiamano economia della cultura. Da anni seguo per motivi professionali il mercato dell’editoria in cui sono stato e sono coinvolto a diversi livelli e più recentemente nel mondo del Teatro (come chi ha la pazienza di seguirmi sui principali social ben sa).

Un mondo in cui sono entrato con un certo scetticismo.

Nonostante la cultura per definizione aiuti ad aprire la mente, per una serie di vecchi retaggi anche politici ed ideologici è in realtà un mondo molto chiuso ed autoreferenziale. Detto questo lo affronto portandomi dietro (con tutti i limiti e le distorsioni del caso, sia chiaro) l’ottica del commercialista affascinato del progetto e di chi fa impresa. E devo ammettere di aver sottovalutato l’effetto dirompente dell’esperienza maturata in questi anni.

L’economia della cultura è una straordinaria palestra per la gestione dell’impresa che cambia. Editoria e Teatro ti costringono:
– a ragionare con risorse scarse;
– ad essere flessile lavorando in settori in perenne crisi;
– a cercare di valorizzare le competenze con nuovi prodotti/servizi perché la sola gestione ordinaria del core business non ti consente la sostenibilità del progetto;
– a investire in piccole “scialuppe” (non oso definirle startup) per tentare nuovi approcci, nuovi business model, spesso con l’obiettivo di ridefinire l’organizzazione e intaccare centri di potere che ingessano la struttura impedendole di cambiare.

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Solo oggi mi rendo conto di che straordinario modello di business possa diventare anche per imprese di altri settori. Per le imprese di servizi, per le imprese e le professioni basate sulla valorizzazione della conoscenza certamente.

Fare impresa oggi è una grande sfida. Si è sempre pensato che l’impresa dovesse, finanziandola, aiutare la cultura (vero). Oggi forse è il momento di prendere consapevolezza che la cultura può diventare un grimaldello per rinnovare l’impresa.

Rubando le parole all’architetto Achille Castiglioni (che aveva già capito tutto):
“Se non siete curiosi, lasciate perdere. Se non vi interessano gli altri, ciò che fanno e come agiscono, allora quello del designer non è un mestiere per voi. Non pensate di diventare gli inventori del mondo. Non è così, e non deve esserlo. Cominciate ad allenarvi alla autoironia e all’autocritica. Liberatevi dall’ossessione di volere, ad ogni costo, tutto inquadrare, tutto catalogare, tutto giudicare con il metro della tendenza è del tipo o, peggio, del premio e del successo. Un buon progetto nasce non dall’ambizione di lasciare un segno, ma dalla volontà di instaurare uno scambio, anche piccolo con l’ignoto personaggio che userà l’oggetto da voi progettato.”

Il questo contesto si inserisce il progetto “Studio Panato #perilteatro”, per questo proviamo su queste pagine a lanciare un sasso sperando che qualcuno più preparato di noi possa aiutarci ad alimentare il confronto e la discussione. Perché la cultura non deve elemosinare una sponsorizzazione ma pretendere di venir retribuita per il servizio che offre. Imparando però ad aprirsi alla società, uscendo dai circoli per iniziati e soprattutto facendo cultura veramente. Cosa che non è cosi scontata ed è forse la parte più sfidante di tutta la faccenda.

Twitter @commercialista