categoria: Draghi e gnomi
Che cosa insegna Singapore sul rischio dell’eterno ricatto Vallonia
“… allo stato attuale, l’accordo di libero scambio con Singapore può essere concluso soltanto in forma congiunta dall’Unione e dagli Stati membri”.
Con queste parole, martedì 16 maggio, la Corte di giustizia europea ha posto una pietra tombale sulla possibilità, da parte dell’Unione, di disporre della competenza esclusiva a firmare e a concludere l’accordo di libero scambio con Singapore.
Attualmente Singapore è il 17° partner commerciale dell’Unione Europea. Nonostante le piccole dimensioni (Singapore è il 20° paese meno esteso al mondo), la ricca e potente città-stato asiatica è il principale centro per gli esportatori europei che vogliono accedere al dinamico mercato del Sud-Est Asiatico. Con una popolazione di oltre 625 milioni di persone ed un tasso di crescita reale del 5.3% dal 2007 al 2015, l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) ha attratto investimenti diretti esteri per oltre 121 miliardi di dollari (circa il 7% del totale) nel solo 2015.
Grafico 1: Singapore in pillole – Fonti : Banca Mondiale; Fondo Monetario Internazionale; Indice della libertà economica. Dati aggiornati al 2017
Crescita economica tra 2007 e 2016 (% PIL) | 4.8% (FMI) |
Indice di libertà economica | 2° al mondo (Indice Libertà economica) |
Prodotto interno lordo pro capite (PPP) | US$ 87.855 (FMI) |
Facilità di aprire e svolgere un’ attività commerciale | 2° al mondo (Banca Mondiale) |
Spesa pubblica (% PIL) | 18.2% (Indice Libertà economica) |
La decisione della Corte di giustizia europea chiarisce inoltre che “sono solo due le parti dell’accordo per le quali l’Unione non gode di una competenza esclusiva, ossia il settore degli investimenti “di portafoglio” […] ed il regime di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati”.
Se da un lato, come riporta Open Europe, questo verdetto sembra offrire una possibile via di fuga per un più facile accordo di libero scambio con il Regno Unito, dall’altro, invece, rischia di mettere in pericolo il futuro della Politica Commerciale Europea. Infatti, come riporta EPICENTER, la disposizione della Corte evidenzia come l’attuale strategia commerciale dell’UE non sia in grado di affrontare efficacemente i problemi contrattuali legali alla negoziazione dei cosiddetti “accordi commerciali di nuova generazione” (accordi olistici, che vanno ben oltre la semplice riduzione o eliminazioni di tariffe e dazi).
Non è un caso, quindi, che il governo singaporiano abbia reagito al verdetto della Corte in modo freddo e si stia già preparando alla fase più frustrante dell’accordo: l’approvazione definitiva del testo da parte di tutti i 38 parlamenti europei (i 28 parlamenti nazionali più varie assemblee regionali).
Tale processo di ratifica non è affatto scontato. Come già avvenuto in un recente passato, possono infatti trascorrere molti anni prima del benestare di tutti gli Stati membri. Di conseguenza, la sentenza della Corte: 1) mantiene – de facto – lo status-quo attuale; 2) rischia di limitare ulteriormente lo scopo per qualsiasi futuro accordo commerciale “di nuova generazione”; 3) va contro la volontà della Commissione di promuovere un nuovo regime di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati.
Non risulta pertanto affatto strana la reazione positiva alla sentenza di alcuni membri euro-scettici del parlamento europeo (come l’irlandese Luke Ming Flanagan, appartenente al partito socialista e comunista della Sinistra Unitaria Europea) che da sempre si oppongo alla Politica Commerciale Europea.
Un esempio che ci permette di spiegare bene le attuali difficoltà della strategia commerciale dell’Unione riguarda il trattato di libero scambio con la Corea del Sud, una delle nazioni più dinamiche, innovative ed aperte al mondo. Sottoscritto inizialmente nel maggio 2010, l’accordo tra Bruxelles e Seul è stato inizialmente applicato provvisoriamente a partire da luglio 2011. Tuttavia, proprio a causa delle competenze concorrenti tra Unione e Stati membri relative agli investimenti di portafoglio, il processo di ratifica è stato portato a termine solo a fine ottobre 2015. In altre parole, tra la firma iniziale e l’approvazione finale sono trascorsi 5 anni e mezzo, un lasso di tempo troppo lungo che non ha giovato né ai produttori europei e sud coreani, né ai consumatori (tutti noi).
Oltre a questo, secondo un’analisi di David Kleinmann e Gesa Kübek, ricercatori presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, il recente caso Vallonia evidenzia molto bene il rischio di paralisi e crescente irrilevanza della politica commerciale europea. Il fatto che i rappresentanti di un elettorato di soli 3,5 milioni di persone siano stati in grado di bloccare un trattato voluto dai rappresentanti politici di oltre 500 milioni di abitanti, ha rafforzato gli incentivi per il ricatto politico. Al tempo stesso, la drammatica e paradossale vicenda della Vallonia permette di rilevare come – anche in ambito commerciale – l’Unione sia in balia del volere e dei capricci dei 28 Stati membri e di alcune assemblee regionali. Insomma, come in tutti i condomini che si rispettino, mettere d’accordo tante famiglie è molto complicato, anche quando il condominio richiede l’adeguamento dell’intero impianto elettrico e mancano soluzioni alternative per sopperire al problema.
A livello commerciale le istituzioni europee operano tenendo conto del principio di attribuzione definito dal Trattato di Lisbona. Secondo tale principio, l’Unione Europea agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che sono state definite dal trattato sul funzionamento dell’Unione. Tuttavia alcune di queste competenze non sono mai state chiarite (si veda voce investimenti “di portafoglio”) ed ancora oggi rimangono troppo ambigue. E’ stato proprio per questo motivo che, nell’ottobre 2014, la Commissione aveva richiesto il parere della Corte di giustizia europea sulla ripartizione delle competenze, per quanto concerneva l’accordo con Singapore. Purtroppo, la sentenza, come detto, ha chiarito solo in parte.
Come riporta un report di Deutsche Bank, l’attuale questione giuridica sulla ripartizione delle competenze rischia di danneggiare la credibilità dell’Unione di stipulare accordi commerciali con paesi terzi. Nello stesso tempo, permette anche a numerose forze anti-globalizzazione (vedi movimenti anti-TTIP e anti-CETA in Germania o partiti anti-globalizzazione in diversi paesi europei) di guadagnare terreno e capitalizzare consenso attraverso l’utilizzo di slogan che inneggiano alla mancanza di trasparenza e di mandato democratico da parte delle istituzioni europee.
Infine, è giusto inserire la delibera della Corte nel più ampio contesto globale: desiderio di Donald Trump di proteggere l’America e di rivedere tutti gli accordi di libero scambio, Brexit, tentativo della Cina di assumere un nuovo ruolo di leadership globale e forte sentimento anti-globalizzazione.
Tutte queste sfide devono farci capire che l’unica vera risposta europea alle difficoltà politiche, economiche e sociali odierne deve venire dal libero mercato. E’ proprio per tutti i precedenti motivi elencati che, come suggerito anche dal “White Paper on the future of Europe”, pubblicato dalla Commissione Europea stessa ad inizio marzo, i rimanenti 27 Stati membri devono impegnarsi a modificare il Trattato di Lisbona e consegnare tutte le competenze commerciali a Bruxelles. Senza una riforma in tal senso, il rischio più grande è la paralisi totale della politica commerciale europea.
La domanda provocatoria che dovremmo porci è la seguente: “Ce la faremo nei prossimi 5 anni a ratificare almeno l’accordo con Singapore e ad approvare il CETA? ”.
Sarebbe davvero un forte segnale vedere questi due accordi ratificati da tutti i parlamenti Europei nei prossimi 12 mesi, senza le solite incertezze.
Anche se la sentenza della Corte sembra aver dato un parere contrario, la speranza è sempre l’ultima a morire…
Twitter @cac_giovanni