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Che succede se vince Marine Le Pen? Lo spiega la macroeconomia del populismo
La novità assoluta delle elezioni presidenziali in Francia è che due candidati non appartenenti ai partiti tradizionali, socialista e repubblicano (ex-RPR e UMP), si sfidano al ballottaggio. Marine Le Pen, candidata del Front National, ha per la prima volta dal dopoguerra serie possibilità di portare il partito alla vittoria. Il programma di governo, descritto nei famosi 144 punti, si basa essenzialmente sulla narrativa del popolo contro le élite, sul restituire finalmente alla popolazione francese, alla sua classe media impoverita, la dignità che la globalizzazione, le élite finanziarie ed economiche le hanno tolto.
Tale narrativa, chiamata “populismo”, non è affatto nuova. Nel tempo numerosi leader, in varie parti del mondo, sono riusciti a salire al potere facendo leva sulla contrapposizione del popolo alle élite. Un libro fondamentale per la comprensione del fenomeno e per l’analisi degli aspetti economici della narrativa populista (e delle sue conseguenze) è sicuramente “Macroeconomics of Populism in Latin America” di R. Dornbusch e S. Edwards uscito nel 1991. Nel libro si analizzano le varie esperienze populiste degli anni 70-80 in America latina, delineandone caratteristiche comuni, elementi di differenza, ma, soprattutto, le debolezze che, dopo un iniziale periodo di successo, portano al completo fallimento. Secondo Dornbusch e Edwards “i programmi populisti emergono come reazione ad un periodo prolungato di stagnazione o recessione, generalmente causato dalle manovre del Fondo Monetario Internazionale e/o di governi conservatori. Il paradigma populista rigetta esplicitamente il pensiero conservatore rifiutando l’idea che vi siano risorse limitate”.
Queste parole suonano abbastanza familiari, vero?
Scritte originariamente in un working paper del 1989 (e riprese poi nel libro), si potrebbero facilmente applicare ai numerosi movimenti “populisti” presenti anche in Europa, come appunto il Front National.
Così, rileggendo il libro perché stimolato dalla recente crisi venezuelana (anch’essa facilmente comprensibile seguendo lo schema descritto da Dornbusch e Edwards), mi è venuta l’idea di riscrivere le principali “4 fasi dell’economia populista” adattandole al caso di un’ipotetica vittoria del Front National in Francia o, in generale, al caso in cui un movimento “populista” riesca a conquistare le leve del governo in una nazione europea e metta in atto alla lettera il proprio programma.
Lungi dal rappresentare una chiara previsione di quello che accadrà, vuole essere invece un resoconto di quello che potrebbe accadere se il programma venisse veramente attuato ed i pesi e contrappesi istituzionali a livello nazionale ed europeo dovessero definitivamente saltare.
Ricalcando il titolo del lavoro di Dornbusch e Edwards potremmo chiamare il seguente percorso come la “Macroeconomia del populismo in Eurozona”.
Fase 1: Nei primi cento giorni di governo vengono implementate le ricette economiche fondamentali del programma. L’espansione dei consumi pubblici, la riduzione delle imposte, l’incremento dei salari reali e delle pensioni, favoriscono una consistente ripresa del Pil e la riduzione della disoccupazione (ulteriormente ridotta dall’abbassamento dell’età pensionabile).
Vengono avviati i colloqui con la Commissione Europea per definire, eventualmente, le linee guida di una separazione tra lo Stato e l’Unione Europea. Tali colloqui, grazie anche all’esperienza del Regno Unito, vengono percepiti dal mercato come di medio/lungo termine, con un esito tutt’altro che scontato. Le eventuali e moderate fughe di capitali conseguenti l’elezione del nuovo presidente vengono assorbite dalla BCE attraverso un’estensione del programma di acquisti ancora in essere. La permanenza nella moneta unica dello Stato, almeno per alcuni anni non è in discussione. L’uscita dalla moneta unica, come da programma elettorale, avrà luogo solo una volta che i nuovi rapporti con la UE saranno avallati dalla popolazione con un referendum. La permanenza nell’euro favorisce inoltre il contenimento dei prezzi dei beni importati e quindi dell’inflazione, tenuta sotto controllo anche grazie all’aumento della vigilanza delle istituzioni pubbliche sul meccanismo di fissazione dei prezzi delle imprese. Maggiori importazioni e maggiore utilizzo delle scorte permettono all’economia francese di utilizzare tutta la capacità in eccesso senza che rilevanti pressioni sui prezzi si manifestino.
Fase 2: Dopo alcuni trimestri di crescita sostenuta l’economia comincia a mostrare alcune strozzature sulla produzione interna. Le imprese nazionali lavorano ormai a pieno regime e le pressioni sui prezzi si fanno sempre più importanti. Le quantità di materie prime e prodotti semilavorati importati hanno ampliato il deficit commerciale. Le scorte sono ai minimi e gli investimenti nel frattempo attuati necessitano di tempo prima di recuperare tutta la capacità produttiva del sistema che negli ultimi decenni è andata perduta.
Da più parti, UE e Germania in testa, si fa sempre più pressante la richiesta di avviare una fase di correzione della domanda interna che allevii le pressioni sui prezzi e sulle importazioni. I risultati dei trimestri passati però garantiscono al presidente un importante consenso elettorale che non può essere disperso per pressioni esterne, soprattutto se provenienti da quelle istituzioni così criticate fino a pochi mesi prima.
L’inflazione risale. I salari vengono adeguati a tali aumenti. Si predispone un piano di controllo dei prezzi di alcuni beni essenziali in modo da alleviare le spinte inflazionistiche. Alcune imprese, soprattutto quelle di più grandi dimensioni che non riescono a resistere alla pressione sui costi, perdono conseguentemente competitività e vengono nazionalizzate. Il deficit pubblico aumenta ancora.
Fase 3: L’insufficienza di beni di produzione nazionale ed il maggior ricorso alle importazioni ha raggiunto ormai livelli preoccupanti. Il mercato finanziario inizia a scommettere su una possibile uscita del Paese dalla zona Euro per scaricare sul cambio le pressioni della fuga di capitali in essere. L’inflazione intanto non accenna a diminuire e le richieste salariali si fanno sempre più importanti. A questo punto per non perdere il consenso della parte principale del proprio elettorato vengono, senza indugio, varate due importanti riforme ormai per troppo tempo rimandate: l’uscita della Stato dalla zona Euro e la completa indicizzazione dei salari al costo della vita.
L’uscita dall’Euro, avvenuta nel primo week-end utile, determina il collasso del sistema finanziario nazionale che viene chiuso per il tempo necessario ad una sua completa nazionalizzazione. Lo Stato si accollerà le passività estere delle banche e procederà ad una loro riorganizzazione. Con quest’ultima mossa però, gli investitori esteri perdono qualsiasi fiducia sulla capacità dello Stato di ripagare le proprie obbligazioni. Lo Stato, pertanto, come da programma elettorale, procede alla monetizzazione del deficit.
Sono varate anche una serie di norme sui movimenti di capitali per frenare i deflussi. La monetizzazione del deficit e la completa indicizzazione dei salari fanno esplodere il livello attuale dei prezzi e le sue aspettative future. Lo Stato non riesce a emettere titoli a più lunga scadenza. A questo punto, pressato dal crescente malumore interno, il presidente tenta una mossa a sorpresa, annunciando una manovra correttiva che riporti sotto controllo le aspettative di inflazione.
La manovra correttiva riduce i sussidi alle produzioni nazionali, rimuove parte dell’indicizzazione dei salari, aumenta l’età pensionabile. La principale conseguenza di questa manovra è la notevole diminuzione dei salari reali. Il consenso per il presidente raggiunge il minimo storico e l’ambiente politico è ormai completamente instabile. Il Governo ha ormai perso il controllo della situazione.
Fase 4: Perso gran parte del consenso elettorale, osteggiato dalle altre forze politiche e dalle organizzazioni sindacali e industriali, il Governo è allo stremo. Data l’instabilità politica, la grave crisi economica e finanziaria, il cambio non accenna a stabilizzarsi e si prospetta il rischio di un completo collasso economico. Viene quindi varato un chiaro programma di stabilizzazione economica con l’aiuto e la supervisione del Fondo Monetario Internazionale.
I salari reali vengono colpiti duramente tornando ad un livello molto più basso rispetto a quello al quale erano prima che quest’esperienza cominciasse. Sussidi e contributi alle imprese vengono eliminati e gran parte di esse devono essere chiuse. La disoccupazione raggiunge livelli mai visti. La caduta dei salari reali e l’aumento della disoccupazione “avranno però effetti molto persistenti, perché questi pochi anni di politiche economiche hanno depresso gli investimenti e promosso la fuga dei capitali”. Il sistema politico, ormai completamente screditato, è altamente instabile. Un ambiente fertile perché nuove figure, legittimate dalla classe media ormai completamente impoverita, preparino con la forza la loro ascesa al potere.
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