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Sorpresa, svuotare le banche dagli Npl non fa ripartire il credito
Tra i paper di Banca d’Italia è appena uscito “Non-performing loans and the supply of bank credit: evidence from Italy” di Accornero, Alessandri, Carpinelli e Sorrentino. Si tratta di una nuova analisi statistica del rapporto tra gli NPL e l’offerta di credito, con specifico focus sul mercato italiano. La loro conclusione è che se il flusso di NPL ha effetto sull’offerta di credito, lo stesso non vale per lo stock di NPL. Se è corretto, ne derivano rilevanti conseguenze per le banche e per il regolatore.
Tenendoci sul semplice quanto possibile, il paper testa per il periodo 2008-2015 la relazione tra l’offerta di credito bancario e stock e flusso degli NPL, dati descrittivi dell’utilizzo del credito concesso, parametri patrimoniali e reddituali delle banche, e l’Asset Quality Review (AQR) con cui la BCE ha fatto correggere le stime sulla qualità del credito di diverse banche. E salta fuori che la relazione apparentemente negativa tra NPL e offerta di credito diventa insignificante, prevalendo l’apporto dato dalle caratteristiche della singola impresa cliente, tra l’altro ben più esplicativo. L’AQR, inoltre, sembra aver inciso sull’offerta di credito solo perché ha comportato uno shock sugli NPL, un flusso improvviso di svalutazioni/accantonamenti che ha inciso sugli utili (perdite) e sulla patrimonializzazione della banca, e solo tramite questa sulla volontà (possibilità) di dare credito.
Interpretando i risultati, quindi, per questi economisti sul credito bancario incide la patrimonializzazione della banca, e su questa incidono le svalutazioni sui crediti che nel tempo alimentano il segmento degli NPL, ma non il livello degli NPL e cioè l’eredità della gestione creditizia del passato. Ne deducono che lo stock degli NPL è in realtà una spia delle più generali condizioni economiche e imprenditoriali, ed è questo contesto “esogeno” che genera (spiega) da una parte l’emersione del credito cattivo in forma di NPL e dall’altra una minor disposizione delle banche a concedere credito. Inoltre, pare che quel che guida in modo particolare il credito sono le caratteristiche specifiche del cliente (cioè le caratteristiche della “domanda” di credito) e la loro variazione nel tempo, tanto che la loro inclusione rende letteralmente insignificanti altre variabili (come appunto lo stock di NPL, ma anche la redditività della banca).
Coerentemente, quindi, lo studio conclude che non è liberando le banche dal loro stock di NPL – l’eredità della gestione passata – che si stimolerà la concessione del credito. Anzi: forzare la vendita di questi asset significa far emergere ulteriori perdite/svalutazioni che colpiscono prima l’utile (perdita) della banca e poi la sua patrimonializzazione, invitandole almeno al primo “giro” a frenare la concessione di credito. Credo che la rilevanza di queste considerazioni sia evidente.
A quanto sopra voglio aggiungere alcune considerazioni, partendo anzitutto dal finale. Se è vero che l’eredità di NPL non è il peso che grava sull’asfittico credito bancario (dati ABI: impieghi verso famiglie e società non finanziarie nel 2016 +1,1%, dato guidato in realtà dai mutui immobiliari che hanno registrato un +1,9%), allora i progetti di vendita degli NPL in corso vanno considerati semplicemente come un modo – sacrosanto – di ridurre i tempi di recupero del credito seppure ad un certo costo. È vero, questo “costo” della liquidazione ricade sulla patrimonializzazione e può riflettersi sull’offerta di credito, ma si tratta di un riflesso congiunturale e non strutturale: le varie manovre artistiche che postano gli oneri della liquidazione degli NPL dalla banca a altri organismi (alimentati magari da altre banche più sane o, in fin della fiera, dalle tasche dei contribuenti) non rappresentano cioè soluzioni sistemiche ma solo un vantaggio temporaneo allo specifico istituto. Ma ancora più a monte, che senso ha per un regolatore prodigarsi sull’alienazione degli NPL e sul controllo del loro prezzo quando il problema del credito non sembra essere quello?
L’altra considerazione parte dal fatto che il paper, nell’illustrazione della letteratura in materia, avvisa che storicamente la crescita degli NPL segue a periodi di credito facile, in cui gli standard creditizi si allentano per definizione (qui si potrebbe aprire un intero capitolo sulla politica monetaria tra euro, central banking e risk premium), ma soprattutto la crescita degli NPL è concomitante al peggioramento degli indici di efficienza (esemio: cost/income).
L’intuizione è che NPL e calo di efficienza siano due conseguenze di una causa comune, in particolare di debolezze manageriali; guardando alcune vicende italiane molto recenti, tale lettura non sembra proprio da scartare, e può essere collegata con quanto riportato in precedenza pensando ad una debolezza manageriale nella gestione di un ambiente creditizio ed economico in rilevante trasformazione.
Se tutto questo sembra coerente, bisogna allora cambiare un po’ l’ottica sul sistema bancario ed uscire dall’idea di poter risolvere le debolezze del credito “finanziariamente”, cioè semplicemente spostando poste di bilancio da un ente a un altro (contribuenti inclusi) o cercando di mutarne i parametri di valutazione, per ritornare alla questione “imprenditoriale” in cui sono i piani industriali, la capacità di seguire i mutamenti del mercato e dell’economia in generale, e la conseguente revisione del modo di fare banca (cioè di concedere credito) a dettare da una parte la qualità dello stock di credito concesso e dall’altra le prospettive di sviluppo sia dei propri impieghi che dell’intero circuito economico.
Concentrarsi su dove rifilare gli NPL o quant’altro sia ritenuto “tossico”, per quanto rilevato nel paper di cui sopra, ha caratteri più cosmetici che strutturali, e quindi lascia immutate le determinanti – non proprio ben indirizzate – di fondo. Il rischio è ripulire una banca solo per ritrovarla di nuovo bella sporco in pochissimi anni.
Twitter @LBaggiani