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Il Pil cinese, la divinazione e altre leggende urbane
Pubblichiamo un post di Fedele De Novellis, partner ed economista senior di REF Ricerche –
Le politiche adottate da banche centrali e Governi per influenzare l’andamento nel breve periodo della domanda aggregata, sono dette anche “politiche di stabilizzazione” del ciclo economico, con tale espressone riferendosi al tentativo di rendere l’attività economica meno instabile nel corso del tempo. Alla luce dei modesti risultati conseguiti negli ultimi anni dalle politiche macroeconomiche nei paesi occidentali, dovrebbe essere con invidia che i nostri Governi guardano ai numeri della crescita cinese: una successione di trimestri praticamente uguali, con scostamenti millimetrici da un trimestre all’altro. Nulla a che vedere con l’ampiezza delle oscillazioni che hanno caratterizzato tutte le maggiori economie.
A scopo esemplificativo, nel grafico si mostra la crescita del Pil cinese mettendola a confronto con quella degli altri quattro “BRICS”. La maggiore stabilità della crescita cinese risalta se confrontata con le fluttuazioni molto ampie che hanno caratterizzato gli altri quattro paesi, in particolar modo fra la fine del 2008 e il 2009.
L’efficacia degli strumenti adottati per stabilizzare l’andamento dell’attività economica è in linea con le capacità divinatorie dei governi cinesi; anche quest’anno ci viene difatti riproposto il surreale dibattito sull’annuncio dell’obiettivo di crescita del Pil, 6.5%, valore sostanzialmente in linea con il dato del 2016 (6.7%), a sua volta collocatosi perfettamente all’interno della forbice indicata dal Governo lo scorso anno (fra il 6.5 e il 7%).
In un mondo così stabile e prevedibile naturalmente non c’è mai crisi. Ci si può però anche chiedere se la stabilità dei dati sulla crescita cinese non nasconda piuttosto un condizionamento politico verso l’istituto di statistica, il che rende le statistiche cinesi oggettivamente inaffidabili.
Una conferma indiretta di tale ipotesi può essere desunta dai dati relativi all’andamento degli scambi con l’estero. I dati relativi agli scambi commerciali sono in genere quelli sui quali le manipolazioni sono meno agevoli in quanto le esportazioni dichiarate da un paese verso un altro dovrebbero in linea teorica coincidere, e in pratica non discostarsi molto, dalle esportazioni dell’altro paese verso l’economia in questione. E non a caso le oscillazioni delle importazioni e esportazioni cinesi negli ultimi venti anni sono state molto marcate, con conseguenze più che rilevanti sul resto dell’economia mondiale. In altri termini, i dati sui quali è possibile un controllo esterno evidenziano un andamento tutt’altro che stabile. Soprattutto nelle fase più recente, l’arretramento delle importazioni cinesi ha pesato in maniera decisiva sulla crescita del commercio mondiale.
Da queste riflessioni possiamo trarre quindi alcune conclusioni:
La prima è che nell’analisi delle tendenze dell’economia cinese scontiamo un ampio gap informativo; questo comporta che è più probabile che la Cina sia fonte di “sorprese” nella definizione degli scenari macroeconomici globali rispetto ad altre aree. Non a caso, gli analisti, per cercare di colmare questo gap informativo, dedicano attenzioni a diversi indicatori di attività economica diversi dalle quantificazioni ufficiali del Pil.
La seconda è che le conseguenze di questi errori di valutazione possono essere rilevanti nella definizione anche delle prospettive delle economie occidentali. Oggi il peso del gigante cinese sull’economia mondiale è decisamente aumentato rispetto al passato; e ciò comporta che le ripercussioni di fluttuazioni dell’economia cinese possono essere significative. Se il rallentamento del commercio mondiale del 2016 ha riflesso in buona parte la contrazione delle importazioni cinesi (si veda questo post ad esempio), anche la fase di instabilità dei mercati finanziari che ha caratterizzato il periodo fra la metà del 2015 e la scorsa estate era stata innescata proprio dal crollo della borsa cinese.
In sostanza la Cina, che negli anni duemila ha condizionato in maniera decisiva la trasformazione strutturale della geografia produttiva globale, inizia ad avere un ruolo sempre più importante anche rispetto agli andamenti congiunturali dell’intera economia mondiale.
Vi è però anche un terzo spunto di riflessione, che nel caso cinese traspare con evidenza, ma che in maniera meno palese è comunque importante per tutti i paesi, ovvero che l’indipendenza degli istituti di statistica è un punto fondamentale all’interno degli assetti istituzionali di un’economia moderna: contesti nei quali le statistiche non sono percepite come affidabili possono anche determinare effetti sfavorevoli sull’attività economica, ad esempio aumentando la percezione di rischiosità degli investimenti in un paese; statistiche non trasparenti generano inoltre asimmetrie informative fra gli operatori presenti sul mercato, alterando la concorrenza; infine, numeri non affidabili impediscono il coordinamento fra le autorità di politica economica di diversi paesi.
Naturalmente, non sono pochi i paesi che presentano, soprattutto fra gli emergenti, problemi di questa natura, ma la Cina ha un peso troppo importante negli equilibri economici internazionali perché si possa continuare a pensare che il paese sia immune da fluttuazioni cicliche con tutto ciò che queste comportano per il resto dell’economia mondiale.
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