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Cosa non dice la retorica protezionistica di destra e di sinistra
Non è un mistero la crisi di consensi che sta vivendo l’apertura globalizzata dei mercati, sia in Europa sia negli USA. Si avverte non solo nelle nazioni più colpite dalla recente crisi economico-finanziaria, ma anche in quelle che apparentemente si sono riprese meglio.Trattasi di un sentimento trasversale, che ricorda sentori passati che sembravano ormai superati dopo la caduta del Muro, avvenuta ventisette anni fa. Un sentimento che spesso si sta traducendo in voti, tanti voti, ad ogni elezione disponibile.
Le correlazioni tra avversione al commercio internazionale e risultati elettorali sono oggetto di un recente paper a cura di Colantone e Stanig, nel quale gli autori hanno analizzato i risultati di settantasei elezioni politiche (di camera bassa) in quindici Paesi dell’Europa Occidentale, tra il 1988 e il 2007, ed hanno osservato i risultati elettorali in alcune regioni particolarmente esposte a shock occupazionali (nel manifatturiero) causati dalle importazioni di prodotti cinesi. In queste regioni, si rinvengono un aumento dei consensi dei partiti nazionalisti e un generale spostamento a destra dell’elettorato.
Ciò che colpisce all’interno dello studio, è l’analisi dei dati a livello individuale, secondo la quale la radicalizzazione in corso – nelle regioni più interessate dagli shock – non riguarderebbe solo i disoccupati, ma anche altre categorie non colpite direttamente, come i pensionati, i dipendenti pubblici ed anche coloro che lavorano nel settore dei servizi.
La trasversalità del fenomeno è molto più profonda e, probabilmente, viene alimentata da forti pregiudizi ideologici (magari indotti) piuttosto che da vicissitudini di vita reale. E in Italia la tendenza è al momento fortissima nel panorama politico (e di riflesso nell’elettorato), non solo a Destra, ma anche a Sinistra (dentro e fuori dal PD) e nel Movimento 5 Stelle. Tutti un po’ cavalcano l’onda anti-mercato, narrando gli asseriti danni provocati alla nostra economia dall’internalizzazione del commercio (dimenticando i disastri economici causati dai freni anti-globalizzazione del secolo scorso).
Questo sentimento comune è giustificato? Un primo argomento contro tale nuova (ma vecchia) tesi dominante – che dovrebbe gratificare i Colbertisti nostrani – è rappresentato dai risultati importanti delle nostre esportazioni, benché il surplus commerciale non sia il termometro più adatto per misurare la salute di un Paese. Ma ci sono poi molti altri benefici che il commercio e la concorrenza internazionale hanno portato all’Italia nel suo secolo e mezzo di storia, che spesso vengono ignorati, poiché meno percepibili e molto meno considerati a livello politico e mediatico.
In un recente saggio [1], Gomellini prova a misurare i vantaggi conseguiti nel lungo periodo dall’Italia (dall’Unità ad oggi) grazie all’apertura al commercio internazionale. In primo luogo l’autore evidenzia i principali punti di svolta della politica commerciale italiana, dai primi dazi (leggeri) Piemontesi, alle riforme tariffarie in ottica protezionistica del 1878 e del 1887, temperate però da numerosi accordi bilaterali di libero scambio (con Austria-Ungheria, Germania e Svizzera ad esempio). Poi l’epoca fascista, contraddistinta da due fasi, una prima quasi “liberale” con il ministro Alberto de’ Stefani (che ridusse il tasso di protezione per le merci italiane del 23%) e una seconda – dal 1925 – decisamente protezionistica, di livello autarchico. Infine, un secondo dopoguerra sulla strada della cooperazione internazionale, intervallata comunque sempre da qualche restrizione commerciale anche di tipo amministrativo (come i limiti quantitativi alle importazioni) ed un ultimo periodo contraddistinto da una politica commerciale esercitata all’interno del contesto dell’Unione Europea e degli accordi GATT/WTO, con una generale tendenza alla riduzione della protezione tariffaria.
Lo studio non si limita all’analisi degli ostacoli alla concorrenza internazionale nella forma delle tariffe e dei limiti amministrativi, prendendo in considerazione ulteriori trade costs, come ad esempio i costi di trasporto, di informazione etc.. Questi costi sarebbero commisurabili, tra il 1870 e il 2000 «(…) a un dazio medio implicito con aliquota pari a 1,3 (130%)». L’andamento dei trade costs oggetto di studio riflette le svolte di politica commerciale sopra elencate, ma ci dice qualcosa di più profondo rispetto alla mera analisi delle tariffe. Ad esempio, il periodo 1870-1913, che coincide con la prima industrializzazione italiana e con un periodo di crescita economica (e spesso usato come argomento a favore di misure protezionistiche), fu contraddistinto da una discesa del grado di protezione grazie alla riduzione dei costi di trasporto ed agli accordi bilaterali, nonostante l’applicazione delle tariffe summenzionate. Nella seconda fase del fascismo invece, dal 1925 in poi, i flussi di commercio bilaterale con 13 Paesi considerati nello studio si riducono complessivamente del 75%. Senza le barriere elevate dal regime, gli scambi sarebbero quasi raddoppiati anziché ridursi drasticamente. Dopo la seconda guerra mondiale, i costi del commercio bilaterale diminuiscono di un quarto tra il 1950 e il 1973 (gli anni del “miracolo economico”) e di circa il 6% tra il 1973 e il 1998. In generale, i due quinti circa dell’intera crescita del commercio bilaterale sarebbero attribuibili alla riduzione degli ostacoli alla concorrenza internazionale.
Passiamo ora a quei vantaggi spesso ignorati. Lo studio analizza il contributo della concorrenza internazionale al benessere degli italiani. Per farlo, l’autore ha condotto un’analisi controfattuale, calcolando «(…) l’ammontare di reddito che compenserebbe la perdita di benessere subita in una condizione limite di autarchia». I cosiddetti gains from trade (“GfT”) che misurano, in termini di redditi reali, il valore attribuibile all’apertura con l’estero e alla disponibilità di beni stranieri. Ovviamente il livello più basso dei GfT si registra durante il fascismo, quando scendono fino allo 0,4% del PIL nel 1943. Dopo la seconda guerra mondiale, i GfT crescono costantemente, toccando il 9,2% del PIL nel 1974 e un picco dell’11% nel 1981. In generale, il valore medio nell’intero periodo considerato ammonta al 4,4% del PIL reale annuo.
Inoltre, un altro tipo di vantaggio apportato dalla concorrenza internazionale riguarda i guadagni di produttività medi, causati sia dal processo di selezione delle imprese più efficienti, sia dai trasferimenti di tecnologia. Se aggiungiamo questo secondo canale di vantaggi, il contributo della concorrenza estera al benessere degli italiani aumenta in maniera importante, con una media annuale pari all’8% del PIL reale, con picchi fino al 20% nell’ultimo periodo del 1900.
Ma nonostante i numeri, la popolarità del libero commercio continua a scendere, come abbiamo visto anche in occasione della recente approvazione del CETA. È sufficiente intervistare un lavorare giustamente in difficoltà per aver perso l’impiego e fare di tutta l’erba un fascio, senza mai approfondire la causa di un evento, illudendosi e illudendo dolosamente che le restrizioni al commercio internazionali possano favorire le fasce meno abbienti.
Si tratta di un fenomeno antico, quasi sempre disatteso dai risultati. Castronovo [2] racconta i rumorii dei maggiori gruppi industriali italiani che precedettero la creazione della Comunità economica europea (“CEE”). Erano tanti i timori di non riuscire a reggere la prova del Mercato comune europeo (“MEC”), cavalcati da parte della Dc, dai socialisti e dai comunisti, i quali ritenevano la creazione dell’Europa come “un atto dell’imperialismo americano“. Ma tutte le paure vennero spazzate via dai fatti. Nel 1958 (un anno dopo la firma del Trattato di Roma) il PIL crebbe del 6,6%, gli scambi registrarono per la prima volta un saldo attivo, la bilancia dei pagamenti registrò un avanzo nel 1959 e aumentarono gli investimenti esteri. La concorrenza europea costrinse le nostre imprese ad accelerare sul versante della competitività. Scrive Castronovo, che tra il 1958 e il 1962 l’Italia subì una svolta decisiva, destinata a portarla all’interno del club dei Paesi più avanzati di Europa.
Per dirlo con una metafora di Castronovo: «Un sistema industriale, che sembrava un calabrone tozzo e greve, aveva perciò messo le ali per volare in alto e non più radente di qualche spanna dal suolo». E tutto queste avvenne in un contesto economico-normativo più favorevole alla concorrenza internazionale, certamente lontano da tentazioni protezionistiche e da assurdità autarchiche prive di cognizione di causa.
Twitter @frabruno88
[1] Gomellini M., “La concorrenza internazionale”, in “Concorrenza, mercato e crescita in Italia: il lungo periodo”, a cura di Alfredo Gigliobianco e Gianni Toniolo, Collana storica della Banca d’Italia, Marsilio Editori 2017.
[2] Castronovo V., “L’Italia del miracolo economico”, Laterza 2010.