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Il muro d’acciaio fra Trump e la Cina
Molto si è scritto del discorso di Donald J. Trump a camere unificate, ma poco si è letto di un tweet rilasciato dall’account ufficiale del presidente, nel quale l’ospite della Casa Bianca sottolineava di aver emesso una nuova direttiva in virtù della quale le pipeline statunitensi, quindi gli oleodotti, “devono essere fatti con acciaio americano”.
Nulla che stupisca l’osservatore, ormai avveduto circa il vezzo nazionalistico del nuovo presidente. Né bisogna sorprendersi dei numerosi commenti ironici che ha provocato sulla rete, il più benevolo dei quali era sull’origine dell’acciaio che regge le fondamenta della Trump Tower. Ma limitarsi alla nota di colore, almeno in questo caso, rischia di generare un profonda sottovalutazione della posta che c’è in gioco nel settore dell’acciaio, a livello globale, innanzitutto, ma anche e soprattutto negli Stati Uniti.
Cominciamo da una veduta d’insieme. Secondo l’ultimo Global steel report rilasciato dall’International Trade administration Usa, nel 2015 il 69% della produzione globale di acciaio era assicurato dai paesi della regione Asia-Oceania, mentre l’America del Nord pesava un risicato 7%, e l’Unione europea il 10%. Se guardiamo ai paesi singoli, la Cina primeggia – cinque compagnie cinesi svettano nella top ten dei produttori – seguita dal Giappone e dall’India. Gli Usa sono quarti, più o meno al livello della Russia che segue da vicino. Poi ci sono Corea del Sud, Germania, Brasile, Turchia e in coda l’Ucraina. Al tempo stesso però, se guardiamo dal lato della domanda, osserviamo che la regione Asia-Oceania “consuma” il 66% della produzione globale, quindi di fatto è eccedentaria del 3%, e gli Usa il 9%, quindi deficitari del 2%.
Non ci sarebbe nulla di strano, se tale situazione non si accoppiasse a un crescente calo di produzione statunitense, che nel 2015 ha perso l’8,6% rispetto all’anno precedente, mentre la regione Asia-Oceania solo del 2,2, cui fa eco un tasso di capacità produttiva che è cresciuta nel decennio 2005-15 a fronte però di un utilizzo declinante: nel 2015 siamo al 68,3% di tassi di utilizzazione degli impianti, a fronte del 69,7 dell’Asia-Oceania e del 71,8% dell’Ue.
Insomma: gli Usa consumano più acciaio di quanto ne producono, malgrado potrebbero produrne di più. Perché non lo fanno? Probabilmente perché conviene loro importarlo.
La disposizione del presidente di fare gli oleodotti solo con acciaio americano, in tal senso, se potrà far piacere ai produttori l’alzata d’ingegno del presidente, non è detto piaccia agli utilizzatori di acciaio, che magari dovranno spendere di più per comprare ciò che gli occorre. Ma di sicuro questi ultimi sono meno rappresentati rispetto ai produttori, che invece la loro voce la fanno sentire eccome.
Chi volesse farsene un’idea può farsi un giro sul sito dell’AISI, l’American Iron and steel Institute, la cui missione è “influenzare le policy pubbliche, educare e formare l’opinione pubblica al supporto di un’industria dell’acciaio forte e sostenibile, impegnata a realizzare e confezionare prodotti che incontrino i bisogni della società”. Fra le comunicazioni ospitate dal sito ce n’è una della Manifactures for Trade enforcement, associazione che raccoglie importanti produttori americani, fra i quali quelli di acciaio. Nella nota in questione, la MTA plaudiva alla decisione del governo Usa di opporsi alla concessione dello stato di economia di mercato alla Cina.
L’impressione, insomma, è che Trump non stia costruendo solo un muro col Messico. A quanto pare ne vuole tirare su un altro, stavolta d’acciaio, con la Cina. Ma non sarà così semplice.
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