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La buona, la brutta e la cattiva inflazione
Pubblichiamo un post di Andrea Garufi, quadro direttivo bancario appassionato di macroeconomia. Collabora al blog Piano Inclinato con una sua rubrica di storia del pensiero economico –
L’inflazione è una gran brutta bestia: per i consumatori, per i prestatori di fondi, per gli stessi economisti.
Per questi ultimi è un blob che sfugge alle previsioni e anche ad un preciso inserimento in qualunque cornice teorica macroeconomica; per i consumatori è uno spettro che mangia potere di acquisto e espone il bilancio familiare a diete dimagranti; per chi presta fondi, le banche per esempio, rappresenta il rischio di aver rinunciato oggi ad un certo potere di acquisto rappresentato dai soldi prestati per vedersene restituito domani un importo inferiore in termini reali, insomma un gran brutto investimento e da ringraziare che non sia diventato pure un bad loan con i tempi che corrono.
I poveri venezuelani sono solo gli ultimi in ordine di apparizione ad essersi accorti sulla propria pelle dei nefasti effetti dell’inflazione che sfugge di mano, una ferita che ancora i tedeschi ricordano pur a distanza di poco meno di un secolo da quando l’iperinflazione morse a casa loro.
Ma se l’inflazione viene contenuta entro limiti e target precisi, previsti e di livello modesto ma positivo, allora anche questa potenziale sciagura diventa addirittura un vantaggio.
Una inflazione contenuta e prevista permette di ridurre il peso reale dei debiti senza necessariamente destabilizzare il sistema finanziario; permette di ridurre sensibilmente a livello macroeconomico il costo reale del salario spingendo la domanda di lavoro, senza che venga sofferto esageratamente a livello micro dal singolo lavoratore; permette a paesi con finanze pubbliche pesantemente indebitate e a bassa crescita di ridurre il rapporto debito/Pil pur non preservandole dall’onere di generare durevoli avanzi primari.
L’iperinflazione è una calamità che distrugge la fiducia nello Stato, nella moneta, nei sistemi di pagamento e nella coesione sociale.
Ma una inflazione contenuta e programmata non è in sé cattiva, così come non è buona. In un articolo apparso oggi sul Sole 24 Ore Morya Longo si riferisce alla fiammata inflazionistica prodotta dalle attese di rialzo del petrolio come ad “inflazione cattiva”. Meglio, sostiene, sarebbe una inflazione “da domanda” (quella che viene generata dalla maggior crescita via consumi che alimenta la crescita salariale) piuttosto che quella “da offerta” come sembra i tempi stiano preparando, e che tanto ricorda la crisi petrolifera degli anni settanta.
Longo non fa direttamente questo paragone, ma la memoria del lettore vola diretta là, eppure è un ricordo poco pertinente: la situazione, le quotazioni e la domanda aggregata mondiale sono diverse, e alle viste non esiste un timore di inflazione a doppia cifra.
La mia impressione da appassionato lettore di storia del pensiero economico è che si continui a cadere in un comunissimo fraintendimento, quello che tutta l’inflazione sia una brutta cosa in sé, che anche una inflazione contenuta lo sia. Ma questa idea è scorretta perché l’unica che conta sono le attese, e in particolar modo i rischi di quello che non riusciamo a prevedere.
INFLAZIONE ATTESA E INFLAZIONE INATTESA
Se l’inflazione è attesa, e pare che oggi tutti abbiano aspettative in tale direzione, allora l’inflazione non è un rischio: essa viene istantaneamente inserita nei tassi che si formano di continuo sui nostri mercati finanziari, e così viene garantita l’efficienza del processo di trasferimento intertemporale della ricchezza che è permesso proprio dall’esistenza di un “prezzo”, il tasso di interesse, che mi quantifica quanto voglio guadagnare rinunciando all’uovo oggi per la gallina domani (la componente reale del tasso) e quanto voglio recuperare di potere d’acquisto (la componente attesa dell’inflazione).
Quello dei tassi di interesse, a ben vedere, è considerabile alla stregua di uno strumento di stabilizzazione automatico, perché aumentando i tassi si tira il freno al surriscaldamento della economia, esattamente come le banche centrali reagiscono alle attese di inflazione rialzando i tassi di policy e attraverso questi influenzano tutta la curva a scadenza dei tassi.
Inoltre, se l’inflazione è attesa, allora anche i nostri salari, molto spesso legati alle aspettative di inflazione nei contratti collettivi di lavoro, si adegueranno garantendoci il mantenimento del desiderato potere di acquisto reale.
Una inflazione attesa (e contenuta) potrebbe permettere ai governi di ridurre il famigerato rapporto debito/pil senza dover spingere sulla leva dell’avanzo primario (leggasi, maggiori tasse) che frena la ripresa drenando risorse dall’economia. Il condizionale è d’obbligo, perché parliamo appunto di politica.
È invece l’inflazione inattesa che è il vero rischio da cui guardarsi: come ogni altro rischio imprevisto è essa la fonte di squilibri e destabilizzazioni e se guardiamo bene è sempre l’impossibilità di previsione che è alla base del drammatico fenomeno della iperinflazione: i prezzi variano talmente in fretta e a salti non quantificabili, che è imprevedibile come si muoverà e impossibile che i meccanismi “automatici” di stabilizzazione la controllino.
Se c’è una inflazione che può essere definita cattiva allora è quest’ultima, indipendentemente se viene dal lato della offerta o della domanda, perché i “meccanismi automatici di stabilizzazione” possono lavorare bene con entrambe.
INFLAZIONE, PRODUTTIVITÀ, CRESCITA E DISUGUAGLIANZE
Una inflazione contenuta, ma con conseguenze che potremmo a ragion veduta giudicare cattive, potrebbe accadere se uno dei meccanismi automatici, come li ho chiamati sopra, non funzionasse, oppure venisse bloccato: il caso emblematico è la contrattazione collettiva dei salari, con le conseguenti ricadute in termini di potere di acquisto e anche delle temute ineguaglianze nella distribuzione di redditi e ricchezza. Ma qui il discorso si complica, se vogliamo rimanere nel campo dell’astrazione generalizzante: se pensiamo ad un blocco normativo all’attività sindacale stiamo parlando di una forma di coercizione che è antidemocratica.
Un altro caso di blocco che mi viene in mente è quello legato al riequilibrio del sistema economico che richiede un maggior contenimento dei salari reali per recuperare produttività e efficienza. Ma questo vuol dire anche che precedentemente i salari reali fossero cresciuti più della produttività, squilibrando l’offerta.
Ma questo esempio, per quanto ci viene insegnato ad ogni corso di macroeconomia universitario, è poco realistico perché non discrimina fra lavoratori e competenze e li assume tutti omogenei. Ma il lavoro e le competenze richieste non sono omogenee nel mondo reale: abbiamo lavori che richiedono pochissimi o nulli skills e know-how e altri lavori molto “skillati” per mutuare un termine del professore Carlo Alberto Carnevale Maffè.
Come avevo mostrato sul blog Piano Inclinato, parlando di modelli di crescita, a differenti livelli di conoscenze competono diversi livelli di produttività e di complementarietà al capitale (astruso termine accademico per dire che una macchina non potrà sostituire, almeno per ora, il tuo lavoro lasciandoti a spasso), e quindi diversi salari reali. È un fatto davanti agli occhi di tutti che vi sono stati sempre maggiori strati di popolazione il cui reddito e ricchezza sta al palo rispetto ad altri strati che li vedono aumentare. Se a questo sommiamo il ritardo tecnologico e di innovazione del nostro paese, la frittata è fatta, perché arriviamo al paradosso che pure i lavoratori “skillati” devono sbarcare il lunario con impieghi sottopagati e inferiori alle proprie competenze.
Il problema di una inflazione, seppure contenuta e attesa, ma cattiva, è proprio legato a questo problema di skills, che in ultima analisi è correlato al livello di istruzione superiore, di abbandono scolastico, di sussidi e incentivi allo studio e di ritardo tecnologico di una nazione.
Questa è allora l’inflazione che mi fa paura.
Twitter @_beneathsurface