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Le Pmi italiane, la crescita e tutto un mondo là fuori: alcune istruzioni per l’uso
Al festival di Trento (più conosciuto come festival dell’economia) si è visto un po’ di tutto. Sfilata di ministri, aspiranti sindaci, giornalisti saggi che parlavano di banche cattive e perché no qualche economista (dopo tutto ci può stare, ammesso che parli di economia). Seguendo a distanza ho colto un tema di rilievo pratico: la crescita (o la sua mancanza). Qualcuno ha ripetuto che le piccole e medie imprese italiane sono ancora la spina dorsale della nostra economia. Per altri invece, come Enrico Moretti, economista a Berkeley, celebrato autore de La nuova geografia del lavoro, “le Pmi sono sempre più un freno, più che una forza. Non voglio essere frainteso. Meglio avere Pmi che non avere datori di lavoro. Ma a parità di presenze in un settore, imprese più grandi hanno più incentivi ad investire in costi fissi di ricerca e sviluppo e a investire nei costi fissi che comporta l’export”.
Il tema, ampiamente discusso da Moretti, è stato ripreso anche da Valerio De Molli, di The European House-Ambrosetti, quarto think tank privato d’Europa, che con le imprese e le loro sfide, si confronta ogni giorno: “Le grandi aziende hanno performance migliore e una maggiore solidità finanziaria: in media un’azienda grande investe il 2,8% del suo fatturato, contro l’1,9% di quelle piccole, e ha una capacità di generare valore, misurata come rapporto tra Ebitda e fatturato, pari al 9,7%, contro il 7,2% di una piccola. Inoltre le aziende grandi accedono più facilmente a canali di finanziamento alternativi a quello bancario, possono affrontare programmi di ricerca e sviluppo, di internazionalizzazione e di crescita più efficaci, sono in grado di attrarre risorse umane più qualificate. In pratica sono più competitive”.
Sinceramente, con tutto il rispetto per Moretti, non convengo con le sue tesi. Ammetto tuttavia che sul concetto d’intervento vale la pena comprendere come si sta muovendo il nostro governo. Un’opportunità che, come spiegato al festival di Trento, il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, pare proprio abbia interesse a sviluppare. Al Mise hanno preso sul serio il concetto di sviluppo estero. In 5 pagine (dalla 28 in poi per intenderci) hanno definito un progetto, supportato da Simest, che mette in campo risorse di grande interesse per le Pmi: finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo di piani di fattibilità, coperture per esportazioni, copertura costi di studi e ricerche. In pratica tutto quello che una Pmi italiana necessita per “andare fuori”.
Resta però un dubbio. Le piccole e medie imprese italiane lo sanno che fuori dei confini europei esiste una cosa chiamata mondo? In base alla mia esperienza potrei dire “NI”. Escludendo l’Occidente, la visione degli imprenditori italiani più o meno è questa: c’è una cosa chiamata Latino America (tipo il Brasile, l’Argentina di Madonna-Evita e poi boh, altre nazioni), c’è l’Africa (quella da cui arrivano gli immigrati che han sempre delle guerre), c’è il Medio Oriente (quelli che ci danno il petrolio, ma hanno anche i terroristi) la Russia (con Putin, che è uno tosto) l’Asia (i cinesi, gli indiani e poi quelli che ci stanno in mezzo, che, boh, son anche loro tipo i cinesi). Le battute tra parentesi sono memorie di mie discussioni con imprenditori che mi manifestavano l’idea di “internazionalizzare”.
Una verità spesso dimenticata è che molti imprenditori italiani sono ignoranti. Intendiamoci, utilizzo questo aggettivo nella sua accezione originale di “coloro che ignorano”. Cosa ignorano? Il mondo e le relative opportunità. Questi progetti del Mise sono un’opportunità per le Pmi italiane? Sicuramente. Ma per avere accesso ai finanziamenti servono esperti (figure spesso mancanti nelle Pmi) o agenzie di consulenza che operano nello sviluppo estero. Un connubio, tra chi ha necessità di andare verso l’estero (e scarseggia di risorse economiche) e chi ha esperienza di questo mondo, è quanto mai necessario, oserei dire vitale.
L’opportunità per le imprese italiane implica tuttavia un investimento, sia economico che strategico, il che implica avere a disposizione risorse. Sul concetto di valorizzazione delle risorse, per sbloccare fondi da investire, per esempio, già ci sono arrivati da un po’ all’Ambrosetti. La loro visione, ben spiegata in questo pezzo del Sole 24 Ore di aprile 2016, aiuta a comprendere come la mentalità classica italiana del “metti via sotto il materasso” e cerca i soldi “fuori” possa solo avere le ore contate.
Un po’ di numeri sulle Pmi ce li offre ancora De Molli. “L’Italia ha 403.000 piccole e medie imprese manufatturiere, il doppio di quelle di Francia (207.000) e Germania (204.000) e quasi il doppio della somma di quelle di Spagna (161.000) e Regno Unito (124.000). Se da un lato questo rappresenta un indubbio punto di forza dall’altro è innegabile che il tema della dimensione impatta sulla crescita”. Differentemente dall’economista Moretti, tuttavia, l’approccio di De Molli è un attimo più operativo e meno “teorico”; del tipo, se mancano i soldi, troviamoli. “Una parte significativa del capitale investito dalla imprese è immobilizzato in asset immobiliari strumentali (terreni e fabbricati): il valore contabile di questi impieghi per le società di capitale è superiore ai 350 miliardi di euro. Se riuscissimo a lanciare un fondo pubblico/privato che, a certe condizioni, investa in questo, avremmo risorse importanti per la crescita delle imprese”.
Il mondo cambia ormai di anno in anno, le risorse disponibili per le imprese non saranno lì per sempre, al Mise. Come ho già scritto in precedenza vi sono differenti nazioni nel mondo dove le nostre imprese possono crescere (e già crescono), è necessario però saper cogliere le opportunità.
Twitter @EnricoVerga