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I banchieri italiani, in crisi di pensiero, avrebbero bisogno di Steve Jobs
Sappiamo che il lessico delle Considerazioni finali della Banca d’Italia è felpato, evocativo. Basta un rigo per far capire a chi vuole capire. In particolare a pagina 22, nel capitolo Costi e redditività delle banche, si legge: “Per molte banche italiane resta forte l’esigenza di intervenire anche sui costi, inclusi quelli per il personale, agendo su qualità e quantità degli organici in maniera coerente con gli sviluppi del mercato e della tecnologia. Il modello di attività, basato su una diffusa presenza territoriale, va ancora adeguato, proseguendo nella riduzione degli sportelli, il cui numero è sceso lo scorso anno a circa 30.000, l’11 per cento in meno rispetto al 2008”.
Segnatevi bene questo enunciato – “il modello di attività va adeguato” – perché significa che il modello di banking, di fare banca tradizionale è sorpassato, non è più adeguato ai tempi. Già qualche anno fa Visco aveva parlato di inadeguatezza del sistema Italia: “Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni. L’aggiustamento richiesto e così a lungo rinviato ha una portata storica; ha implicazioni per le modalità di accumulazione del capitale materiale e immateriale, la specializzazione e l’organizzazione produttiva, il sistema di istruzione, le competenze, i percorsi occupazionali, le caratteristiche del modello di welfare e la distribuzione dei redditi, le rendite incompatibili con il nuovo contesto competitivo, il funzionamento dell’amministrazione pubblica. È un aggiustamento che necessita del contributo decisivo della politica, ma è essenziale la risposta della società e di tutte le forze produttive” (Considerazioni finali, 31 maggio 2013).
Ora tocca ai banchieri, che devono correre per recuperare il tempo perduto. Una volta che il problema delle sofferenze verrà risolto, si porrà il problema del modello di banca retail. I barbari sono alle porte. Nella Relazione annuale si legge: “Le tecnologie digitali stanno riducendo i costi di ingresso nell’industria dei servizi finanziari”. Stiamo parlando del lending-based crowdfunding, del prestito collettivo attraverso canali interamente digitali. In Italia la presenza di questi operatori specializzati è trascurabile. Mentre, “nel confronto con un campione di gruppi bancari significativi, quelli italiani hanno mediamente una quota dell’attivo investita in prestiti alle imprese più elevata e un’esposizione al rischio di credito meno diversificata per paese; entrambe queste caratteristiche possono essere fattori di vulnerabilità durante le fasi recessive”.
In sintesi:
– Le banche tradizionali hanno un numero eccessivo di sportelli. Solo pochi anni fa se li contendevano a suon di milioni, oggi li svalutano. Che lungimiranza i nostri banchieri!
– La capacità di valutare il rischio di credito verso le imprese non si è dimostrata all’altezza. “Il 78,7 per cento dei crediti deteriorati lordi era verso le imprese” (Relazione, p. 143, cit.). I banchieri dovrebbero tornare a leggere il modello 253 scritto da Giovanni Malagodi su mandato di Raffaele Mattioli.
– I banchieri avrebbero dovuto favorire in maggior misura la crescita dimensionale delle imprese loro clienti. Non lo hanno fatto in modo consistente.
– Le sofferenze erodono la redditività, quando c’è: “La redditività dei principali gruppi italiani rimane inferiore a quella delle banche europee ma il divario è diminuito significativamente rispetto all’anno precedente. Il ROE dei gruppi italiani inclusi in un campione di grandi banche europee è stato di 1,6 punti più basso di quello medio del campione nel 2015, di 7,1 punti nel 2014” (Relazione, p. 149, cit.).
– Le logiche di territorio sono risultate distruttive: “È necessario […] superare le vecchie logiche di mero presidio del territorio che hanno sovente contribuito ad acuire, anziché attenuare, le difficoltà dell’economia reale e delle stesse banche” (p. 24 CF, cit.). Per anni alcuni banchieri italiani si sono trincerati dietro questa espressione per coprire le loro malefatte, i finanziamenti ad “amici degli amici”, senza uno straccio di garanzia, una seria analisi del merito di credito. Mentre in pubblico, ai dibattiti, i banchieri locali diffondevano il verbo del sostegno all’economia del “territorio”, in realtà venivano finanziate operazioni immobiliari di dubbia qualità con un peso enorme sugli attivi totali della banca. “In non pochi casi – scrive Visco – agli effetti di una recessione lunga e profonda si sono sommati quelli di comportamenti imprudenti e a volte fraudolenti da parte di amministratori e dirigenti”.
Nel volume “La nuova finanza in Italia” (2000, Bollati Boringhieri) di Pierluigi Ciocca – governatore mancato – si analizzava l’adeguatezza strutturale del sistema finanziario italiano. Ciocca analizzò il ventennio 1980-2000 definendolo “una difficile metamorfosi”, e oggi questa definizione è ancora valida perché il modello di banca tradizionale, in un sistema ancora bancocentrico, fa acqua da tutte le parti. Chi produce dischi in vinile ha dovuto ripensare il proprio mestiere. I banchieri, in crisi di pensiero, avrebbero bisogno di Steve Jobs per capire che il digitale mette a rischio il loro mestiere.
Twitter @beniapiccone