Una strategia per il clima

scritto da il 06 Maggio 2016

Pubblichiamo un post di Stefano Sylos Labini, ricercatore ENEA, geologo, esperto di energia, dal 2004 al 2014 ha collaborato con Giorgio Ruffolo, con il quale (2012-2014) è stato editorialista di Repubblica su temi di economia e politica. Dal 2014 ha iniziato a lavorare sul Progetto della Moneta Fiscale –

L’accordo sul clima che è stato firmato a New York lo scorso 22 aprile da più di 170 Paesi ha sancito l’impegno di mantenere la crescita della temperatura ben al di sotto dei 2 gradi, facendo ogni sforzo per non superare la soglia di 1,5 gradi.

Per l’Italia significa dimezzare le emissioni serra al 2050 rispetto ai valori del 1990, portare le fonti rinnovabili al 35% dei consumi di energia primaria (oggi sono al 17,3%) e al 66% dei consumi di elettricità (oggi sono al 38%) aumentando del 40% l’efficienza energetica. Ma i risultati del 2015 non inducono all’ottimismo: le emissioni serra a causa di una leggera ripresa del Pil, del basso prezzo del petrolio e dell’allentamento delle politiche innovative sono tornate a crescere del 2,5%, mentre la produzione di elettricità da fonti rinnovabili è scesa dal 43 al 38% per la prima volta dal 2007.

Ricordiamo che per ogni tonnellata di combustibile fossile bruciata vengono prodotte poco più di 3 tonnellate di anidride carbonica. Dunque, per ridurre le emissioni è vitale che siano consumati meno combustibili fossili il cui utilizzo è molto elevato per l’alimentazione delle macchine a benzina, per la produzione di elettricità e per il riscaldamento delle abitazioni.

La Fondazione per lo sviluppo sostenibile di recente ha presentato un Rapporto in cui sono vi sono una serie di proposte per onorare l’accordo sul clima, tra cui: la riforma della fiscalità in chiave ecologica introducendo una carbon tax; un maggiore impegno sull’efficienza energetica; il potenziamento della mobilità sostenibile; il sostegno all’agricoltura nella lotta al cambiamento  climatico; la promozione dell’economia circolare; lo stimolo dell’innovazione orientata alla green economy.

1. Le spese in ricerca e sviluppo e gli investimenti nell’innovazione tecnologica

L’innovazione tecnologica rappresenta il fattore chiave per superare il modello di sviluppo fondato sui combustibili fossili, sull’automobile a benzina e sulle materie plastiche, un modello che ha permesso di realizzare una crescita quantitativa prodigiosa ma che ora non è più sostenibile.

Per questo serviranno massicci investimenti in ricerca e sviluppo e nella diversificazione energetica. Ma il nostro Paese sta investendo delle cifre irrisorie nell’innovazione e nella riconversione energetico-ambientale del sistema economico. In particolare, non abbiamo ancora iniziato a produrre automobili ibride e elettriche, siamo molto deboli nel settore di produzione delle nuove tecnologie per le fonti rinnovabili, mentre abbiamo qualche segnale interessante nello sviluppo dei nuovi materiali biodegradabili (bio-plastiche) grazie a imprese come Novamont e Bio-on. Quello che manca è un deciso impegno della poche grandi imprese che hanno ancora lo Stato italiano come azionista di maggioranza relativa (ENI, ENEL, TERNA, SNAM, Finmeccanica) o che possiedono stabilimenti produttivi in Italia (FIAT-CHRYSLER, Pirelli, Tenaris).

La tabella 1 illustra l’impegno in ricerca e sviluppo delle grandi imprese italiane. Ciò che colpisce sono le esigue spese in R&S dei due colossi energetici ENI ed ENEL, inferiori allo 0,2% del fatturato; mentre FIAT-CHRYSLER (1), sebbene spenda in R&S il 3,8% del fatturato, non mostra alcun interesse verso l’auto elettrica: solo in California è costretta a vendere la 500e per rispettare le ferree leggi dello Stato americano che impone ai costruttori la produzione di una quota di veicoli a zero emissioni (ZEV). Eppure l’azienda torinese fu tra le prime a sperimentare l’installazione di propulsori alimentati a batterie su un modello già in produzione: la Panda Elettra del 1990 era dotata di un motore elettrico da 14 kW alimentato da batterie al piombo.

tab-1

Indubbiamente, non sono solo le imprese energetiche italiane che investono in modo risibile nella ricerca e nella diversificazione energetica. La tabella 2 dimostra che le tutte le grandi imprese europee dell’energia hanno una quota di spese in R&S che a stento supera l’1% del fatturato, mentre esistono imprese ad alta tecnologia che arrivano ad investire in R&S oltre il 15% del fatturato (2).

tab-2

Nel settore energetico la possibilità di conseguire enormi profitti in un mercato altamente concentrato dove esiste una domanda piuttosto rigida tende a disincentivare gli investimenti delle grandi imprese private verso l’innovazione e la diversificazione energetica. Si tratta di un sistema oligopolistico in cui vi sono alcune imprese price leader che variano i prezzi di vendita quando variano i costi diretti nella piena consapevolezza che i loro concorrenti faranno altrettanto.

Così, quando cambia il costo dell’energia grezza nei mercati di estrazione, le imprese energetiche tendono a variare i prezzi finali in modo proporzionale per ampliare, o almeno per conservare, i propri margini di profitto. Ma, nelle fasi di crescita del prezzo del petrolio e del gas, gli “extra-profitti” delle imprese oligopolistiche non vengono impiegati per finanziare gli investimenti nell’innovazione e nella diversificazione energetica. Tra gli obiettivi principali delle imprese energetiche vi sono quelli di acquisire ulteriori quote di mercato attraverso operazioni finanziarie, di distribuire dividendi agli azionisti e di incrementare le stock options per il management. Dunque, i profitti prendono la strada della finanza e non quella dell’economia reale creando un pesante ostacolo verso la transizione ad un’economia sostenibile.

Pertanto, la costruzione di un’economia meno dipendente dai combustibili fossili e a più basso impatto ambientale richiederà un massiccio intervento dello Stato poiché se non si verificherà un mutamento ancora più netto dei prezzi relativi delle fonti di energia, delle tecnologie e dei prodotti, difficilmente avranno luogo cambiamenti significativi del sistema di produzione e di consumo in quanto il mercato non anticipa gli eventi, ma li segue adattandosi alle nuove situazioni.

2. Il ruolo della domanda pubblica nel processo di riconversione ecologica

La domanda pubblica innovativa può svolgere un ruolo fondamentale nella promozione di un’economia sostenibile. Su questo punto è utile richiamare l’esperienza americana del dopoguerra.

Diversi economisti americani, tra cui Lester Thurow, hanno sottolineato che la spesa realizzata dal settore militare negli anni ’50 e ’60 sui grandi progetti spaziali e sui sistemi di difesa missilistica, ha contribuito a trainare la crescita dell’economia degli Stati Uniti nel periodo successivo. La spesa federale è stata la principale fonte di finanziamento della ricerca e sviluppo e la principale fonte di domanda di nuove tecnologie – tra cui semiconduttori, microelettronica, macchine a controllo numerico, intelligenza artificiale, nuovi materiali e laser – fornendo un forte impulso alla rivoluzione dell’informatica e delle telecomunicazioni che si è pienamente realizzata durante gli anni ’90 quando è entrato in voga il termine di “new economy”.

Così negli Stati Uniti — il Paese preso come riferimento dai fautori del liberismo — l’intervento pubblico ha avuto la funzione di promuovere la ricerca e di creare una nuova domanda, cioè nuovi mercati e nuove commesse per il settore privato, favorendo la crescita di nuove imprese e di nuovi prodotti. Se non vi è una domanda consistente, infatti, le imprese private trovano scarso interesse a progettare, finanziare e realizzare gli investimenti innovativi, dal momento che i rendimenti degli investimenti non sono abbastanza elevati e i ritorni richiedono tempi troppo lunghi.

Se, allora, in un’economia di mercato viene riconosciuta l’importanza strategica della domanda pubblica, si potrebbe pensare di promuovere:

1. il potenziamento dell’istruzione per offrire ai giovani corsi di formazione e di educazione ambientale;

2. la costruzione di impianti per la selezione, il trattamento e il riciclo dei rifiuti e di impianti per la depurazione delle acque;

3. la sostituzione dei mezzi di trasporto pubblici a gasolio e a benzina con quelli ibridi ed elettrici;

4. la sostituzione delle materie plastiche e dei prodotti chimici con i prodotti biologici e biodegradabili;

5. la diffusione di impianti che permettono di ottenere energia “pulita”;

6. l’agricoltura biologica, la difesa del suolo e un vasto programma di riforestazione.

Il potenziamento della spesa pubblica per la riconversione ecologica dell’economia andrebbe associato a incentivi fiscali e creditizi e ad una nuova legislazione ambientale volta a riformulare standard, vincoli e divieti. In particolare, gli incentivi possono dare un forte impulso alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio che consentirebbe non solo di conseguire importanti risultati in termini di risparmio energetico ma anche di aumentare il valore degli immobili.

Per cambiare il modello di sviluppo, dunque, devono essere attivati enormi investimenti pubblici, i quali possono mettere in moto gli investimenti delle imprese private generando un meccanismo in grado di autoalimentarsi come abbiamo visto nel caso dell’esperienza americana nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

3. Una proposta per rilanciare gli investimenti pubblici

La BCE ha aumentato gli acquisti di titoli di Stato e ha predisposto un piano di acquisto di bond aziendali. In questo quadro la BCE potrebbe comprare anche obbligazioni della Banca Europea degli Investimenti per finanziare direttamente un grande piano di riconversione energetico-ambientale a livello continentale. Se si mettesse in campo un piano da 1.000 miliardi di euro si potrebbe avere una spinta verso la riconversione ecologica dell’economia e l’espansione della domanda, passo fondamentale per ridurre la disoccupazione e per conseguire il target di inflazione del 2%.

4. Le difficoltà di un processo di riconversione dell’economia

Dobbiamo essere coscienti che la riconversione ecologica dell’economia sarà un processo complicato che non può essere lasciato solo al gioco degli incentivi e all’azione delle “forze di mercato”. Nel settore energetico, la transizione da un sistema basato su grandi impianti a combustibili fossili e a combustibili nucleari verso un sistema decentrato costituito da piccoli impianti in grado di sfruttare le fonti rinnovabili, rappresenterà un cambiamento epocale per il sistema capitalistico. Un cambiamento che sconvolgerà il panorama energetico dominato dai grandi oligopoli che controllano i prezzi e regolano l’offerta di energia.

Se oggi guardiamo al settore elettrico dei paesi avanzati vediamo che esiste un eccesso di capacità di generazione elettrica che si è determinata in seguito alla recessione ed alla conseguente caduta dei consumi (in Italia si stima che la capacità produttiva ecceda del 30% la domanda di elettricità). In un tale contesto l’espansione della generazione da fonti rinnovabili determina uno spiazzamento degli impianti più vecchi, inefficienti e inquinanti a combustibili fossili. Per questo motivo bisogna elaborare una programmazione energetica che preveda un piano di dismissione degli impianti più vecchi e un processo di sostituzione con i nuovi impianti. Si tratta di un problema molto delicato in quanto i costi di dismissione dei vecchi impianti sono consistenti e oltretutto si viene a determinare un problema di occupazione che deve essere riconvertita.

Conclusioni

L’attuazione dell’accordo sul clima richiederà un massiccio piano di investimenti nell’innovazione e nella diversificazione energetica. Lo Stato ha la responsabilità di guidare la transizione da un sistema basato sui combustibili fossili verso un sistema alimentato in misura maggiore con le fonti rinnovabili. Per questo motivo la riconversione energetico-ambientale del nostro Paese richiede una politica industriale di ampio respiro dove siano coinvolte le grandi imprese insieme alle università e ai centri di ricerca pubblici come il CNR e l’ENEA per costruire un sistema di innovazione che va dalla ricerca alla produzione industriale. Altrimenti, corriamo il rischio di accentuare la dipendenza dalle importazioni di tecnologie pulite prodotte all’estero.

Pertanto, le grandi imprese di cui lo Stato è ancora azionista di maggioranza relativa – ENI, ENEL, TERNA e SNAM – potrebbero aumentare le spese in R&S al 5% del fatturato assumendo un ruolo propulsivo negli investimenti per la diversificazione energetica. Un’azione di sistema è vitale anche per sfruttare al meglio gli ingenti fondi strutturali europei. In prospettiva, il nostro Governo deve prendere un’iniziativa in Europa per lanciare un piano di investimenti per la riconversione ecologica del Vecchio Continente. Non possiamo consentire che l’Accordo sul Clima sia solo una dichiarazione di intenti destinata a rimanere sulla carta.

NOTA

(1) FIAT-CHRYSLER ha siglato un accordo con Google per la produzione di una macchina ibrida senza guidatore: la Chrysler Pacifica sarà la prima auto ibrida del gruppo FCA e il primo modello della storia a portare a bordo la tecnologia di guida autonoma sviluppata da Google.

(2) Si veda: The EU Industrial R&D Investment Scoreboard.