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Con un surplus da anni Novanta l’Italia può puntare sulla flessibilità per investimenti
Lo strumento principale attraverso il quale esaminare i conti esteri di un qualsiasi Paese è la bilancia dei pagamenti. Si tratta di uno schema contabile che registra le transazioni in un dato periodo di tempo tra i residenti in un’economia e i non residenti, e si compone di tre parti principali: il conto corrente o delle partite correnti, che raccoglie informazioni sulle esportazioni e importazioni di beni e servizi e sui redditi primari e secondari; il conto capitale che rileva esportazioni e importazioni di beni capitali non prodotti; il conto finanziario, che prende in esame gli investimenti diretti, quelli di portafoglio, gli altri investimenti e derivati e la variazione delle riserve ufficiali.
Partiamo con l’esaminare il conto corrente, il conto che registra i flussi di beni, servizi e redditi tra l’Italia e l’estero. I valori registrati nel 2015 sono indicati nel grafico.
Abbiamo visto nel post precedente come si sono evoluti gli scambi commerciali dell’economia italiana nel 2015 e come si è andato formando il saldo commerciale italiano. La differenza tra il saldo commerciale ed il saldo merci delle partite è essenzialmente relativa al fatto che le importazioni vengono indicate al valore CIF negli scambi commerciali (comprensive pertanto dei costi di trasporto e assicurazione fino alla frontiera italiana), mentre nel conto merci delle partite correnti al valore FOB, ovvero comprensive dei costi di trasporto e assicurazione fino alla frontiera del Paese da cui importiamo. Partendo quindi dal saldo commerciale e riclassificando al valore FOB le importazione si ottiene il saldo merci. Nel 2015 tale valore è stato positivo per oltre 53 miliardi di euro, il valore più alto di sempre in termini assoluti.
Il conto dei servizi è stato invece negativo per 1,3 miliardi di euro. Si tratta di un valore che non si discosta molto dal trend degli ultimi anni, fatto di leggeri surplus o deficit. L’anno di discontinuità di questa voce è rappresentato infatti dal 2012 quando dal deficit di oltre 6 miliardi del 2011 (9,1 nel 2010) si è arrivati ad un sostanziale pareggio. La componente che principalmente ha influito su questa discontinuità è stata quella dei viaggi, relativa ai beni e servizi che vengono acquistati dagli stranieri durante il loro soggiorno in Italia oppure che gli Italiani acquistano all’estero durante la loro permanenza oltreconfine. Il saldo di questa voce che nel 2011 era attivo per 10 miliardi (8,8 nel 2010), a fine 2015 ha raggiunto il massimo storico di 13,7 miliardi di euro.
Il conto dei redditi primari si distingue in redditi da lavoro dipendente (quando il datore di lavoro ed il lavoratore sono residenti in economie differenti), redditi da capitale (redditi che derivano da attività detenute all’estero o che vengono pagate su attività italiane di soggetti non residenti) e altri redditi (relativi principalmente a imposte sulla produzione o importazione, contributi ai prodotti o alla produzione, royalty per lo sfruttamento di risorse naturali). Anche questa voce, così come quella dei servizi, ha registrato un limitato deficit, pari a circa due miliardi di euro, in leggero aumento rispetto al deficit di 1,45 miliardi del 2014. Si tratta, anche in questo caso, di valori che hanno avuto negli ultimi anni una sostanziale riduzione, basti pensare che nel 2008 il conto redditi primari era in deficit di oltre 15 miliardi.
Un tale disavanzo fu essenzialmente causato dalla situazione economico-finanziaria venutasi a creare tra il 2007 ed il 2008 con lo scoppio della bolla dei mutui subprime ed il fallimento di Lehman Brothers. La maggiore avversione al rischio sui mercati internazionali ed il crollo dell’attività economica incisero negativamente sui nostri conti esteri sia dal lato dei redditi riscossi all’estero (che calarono tra il 2006 ed il 2008 di circa 6 miliardi) che dei redditi pagati all’estero (che aumentarono invece di 15 miliardi). Si passò così nel giro di soli 2 anni da un surplus di quasi 2 miliardi di euro ad un deficit di circa 19 miliardi. Successivamente, grazie alla progressiva riduzione dei tassi d’interesse, e quindi ai minori interessi pagati all’estero dalle imprese e dallo Stato, si è avuta un’importante riduzione del deficit, interrotta però nuovamente dalla crisi dell’eurozona del 2011. Nel 2015 il saldo dei redditi da capitale è stato negativo per circa 8,5 miliardi, che, sebbene sia il deficit più basso dal 2007, è ancora ben lontano dal surplus raggiunto nel 2006.
Il conto redditi secondari è l’ultima voce che forma il saldo delle partite correnti. Essa si riferisce principalmente ai trasferimenti tra soggetti residenti e non. Per trasferimento si intende l’offerta di beni, servizi, attività finanziarie o altro senza che vi sia una corrispondente contropartita economica. La voce principale di questo conto è rappresentata dai trasferimenti nei confronti dell’Unione Europea, che sul deficit di 14,6 miliardi registrato dai redditi secondari nel 2015 incide per oltre 12 miliardi. Si tratta di un deficit che storicamente il nostro Paese registra nei confronti della EU, dovuto al fatto che la differenza tra contributi erogati e ricevuti non si riferisce a trasferimenti interni a parziale compensazione dei surplus/deficit esteri tra i vari membri dell’Unione, ma a parametri principalmente legati alla dimensione dell’economia ed al suo livello di sviluppo. Può succedere così, come avvenuto all’Italia nel 2010, o alla Francia negli ultimi anni, che sebbene l’economia si trovi in disavanzo sull’estero sui conti dei beni, servizi e redditi primari, la voce dei trasferimenti vada ad appesantire questo deficit piuttosto che alleviarlo.
I conti fin qui analizzati determinano un attivo delle partite correnti pari a 35,8 miliardi di euro, circa il 2,2% del Pil, un valore tra i più alti degli ultimi 45 anni, superato soltanto dai surplus registrati nel 1996 e nel 1997. Conclusa l’analisi delle partite correnti possiamo ricavare quale sia stato l’avanzo estero complessivo dell’Italia aggiungendo ad esso il saldo del conto capitale, che registra i trasferimenti di capitale (come ad esempio la cancellazione di debiti internazionali) e l’acquisizione/cessione di attività non finanziarie non prodotte (come i brevetti). Il conto capitale ha registrato lo scorso anno un deficit di circa 1,1 miliardi di euro, perciò l’avanzo estero dell’Italia nel 2015 è stato complessivamente di 34,7 miliardi di euro. Nel 2015 solo Germania e Olanda hanno registrato in valore assoluto, tra i Paesi dell’Unione Europea, un surplus di partite correnti più alto di quello Italiano.
C’è da chiedersi se la strategia per il prossimo futuro del nostro governo sia quella di continuare verso questa impostazione mercantilista, mantenendo compressa la domanda interna e quindi occupazione e prodotto interno. Oppure se, magari con l’avvicinarsi delle scadenze elettorali, non si scelga di sostenere la domanda interna giocandosi quella che da un po’ di tempo viene chiamata la “flessibilità”, che altro non è che un più elevato deficit del settore pubblico. Flessibilità a cui è del tutto legittimo pensare dati gli ottimi conti esteri. Inoltre, è da sottolineare che una eventuale manovra espansiva realizzata con investimenti in settori che rappresentano delle tradizionali debolezze della nostra economia – primo fra tutto quello dell’energia – non è detto che comporti un deciso peggioramento dei conti esteri, stante l’attuale quadro macroeconomico internazionale (fatto di bassi tassi d’interesse nominali e basso livello di prezzo delle materie prime) particolarmente favorevole.
Twitter @francelenzi