Dal QE alla Abenomics per le politiche economiche molte gambe e poca strada

scritto da il 21 Aprile 2016

Pubblichiamo un post di Andrea Mantovi e Giulio Tagliavini. Mantovi è docente a contratto di approfondimenti di microeconomia presso l’Università degli Studi di Parma. Diverse le pubblicazioni di livello internazionale, la più recente, in uscita sul Journal of Economics. Tagliavini è professore ordinario di economia degli intermediari finanziari presso l’Università degli Studi di Parma. Si interessa di gestione della banca con riguardo ai profili della responsabilità sociale e del relativo profilo etico –

Gli economisti hanno da tempo imparato a usare le metafore per sintetizzare tramite immagini accattivanti il nucleo di un problema economico. Tra gli esempi più celebri possiamo citare la “mano invisibile” (che guida le dinamiche dei mercati), il problema di “fare bere il cavallo” (cioè fare sì che una economia risponda effettivamente alle politiche economiche messe in atto) e il “dilemma del prigioniero” (che deve scegliere una strategia senza conoscere le strategie dei suoi competitors). A nostro avviso la drammatica inerzia delle economie avanzate (quelle europee in primo luogo) a rispondere alle politiche espansive di governi e banche centrali si può catturare nella seguente metafora: le economie avanzate sono animali con molte gambe, che si intralciano relativamente spesso.

L’immagine dell’animale richiama il fatto che una economia è un organismo, che si può studiare in termini di fisiologia e patologie. Le gambe dell’animale rappresentano le leve economiche che governanti (e anche imprenditori) possono manovrare, con l’obiettivo di dirigere l’economia verso certi obiettivi. La metafora intende rappresentare in effetti due problemi economici contestuali.

Il primo (problema I) concerne il fatto che per andare in una certa direzione tutte le gambe dell’animale debbono muoversi nella stessa direzione; fuor di metafora, le politiche economiche debbono essere compatibili e coerenti fra loro. Il secondo (problema II) concerne il fatto che una gamba può sgambettare l’altra; fuor di metafora, i diversi settori economici possono essere in competizione fisiologica, guidando verso l’efficienza la allocazione delle risorse, ma anche patologica, ad esempio quando la redditività di alcuni settori mina le fondamenta sane di altri settori. Pensiamo anche al ruolo dei “settori” sotto il controllo delle organizzazioni criminali. Esiste indubbiamente un rilievo essenziale della criminalità e dei conflitti nell’ambito dello studio delle dinamiche economiche (si pensi al “dark side of the force” di Hirshleifer).

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Non scopriamo certo noi che compatibilità e coordinamento delle politiche economiche sono questioni cruciali. Un esempio di grande attualità è il dibattito sulla “EUsterity”, incentrato sulla interferenza tra le politiche di rigore fiscale portate avanti in sede UE e le politiche espansive di governi europei e BCE. Tuttavia, mettere in primo piano l’effetto aggregato delle politiche (nella metafora, il risultato del movimento di tutte le gambe) e non i dettagli della singola politica (la lunghezza e direzione del singolo passo) non sembra essere l’argomento di una metafora ampiamente utilizzata.

A titolo di esempio, la nostra metafora sembra appropriata per discutere il problema dell’efficacia del quantitative easing (QE) attualmente implementato da diverse banche centrali, in particolare la BCE presieduta da Mario Draghi. Il QE è nella sostanza la trasformazione del debito pubblico in moneta potenziale e per questa ragione si usa il termine “monetizzazione del debito”. I titoli pubblici sono trasformati, rapidamente e forzatamente, in investimenti della banca centrale, che evidentemente realizza questa operazione creando un proprio debito. I debiti della banca centrale sono “base monetaria”, possono essere usati dai soggetti, che hanno venduto i titoli di stato, come riserva di liquidità per organizzare e promuovere la propria attività bancaria. Le banche possono utilizzare i depositi presso la banca centrale per realizzare nuovi prestiti, o nuovi investimenti mobiliari, o mantenere allo stato potenziale tali riserve di liquidità.

Questa operazione ha enormi ripercussioni sulla economicità della gestione delle banche. Le banche intermediano liquidità. Raccolgono risparmio tra il pubblico e trasformano questo risparmio in prestiti verso le imprese. A fondamento di tale trasformazione, che genera il margine di interesse (la prima componente lorda della redditività bancaria), vi è il fatto che la liquidità sia una risorsa relativamente scarsa, almeno rispetto alla domanda esistente. È vero che la sovrabbondanza di liquidità in teoria porta all’abbassamento dei tassi passivi e dei tassi attivi. Ma nel concreto, tutti sanno che i tassi passivi sono già al minimo assoluto e non possono scendere al di sotto dello zero, mentre i tassi attivi possono scendere in misura maggiore, se non altro per colpa dei crediti in sofferenza da spesare in conto economico e per la penuria di progetti di investimento interessanti. Il confronto tra tassi passivi e tassi attivi netti da costo del credito insolvente finisce in zona di grande pericolo.

Il QE mette in pericolo il principale meccanismo di creazione della redditività bancaria, in ragione, in fondo, del fatto che la banca vende servizi che sono soluzioni ai problemi di liquidità degli operatori, ma con strumentazioni di politica monetaria di questo tipo e di questa forza si definiscono condizioni sfavorevoli per i servizi della banca. Scrive Andrea Franceschi sul Sole 24 Ore online del 9 marzo che le banche temono le mosse di Draghi, in particolare il perpetrarsi della corsa verso il negativo dei tassi, in particolare il fatto che “per contrastarne gli effetti le banche dovrebbero passare l’extra-costo ai propri clienti”. In un certo senso, la gamba del QE sembra sgambettare la gamba della politica di governo della stabilità delle banche, resa precaria dalla caduta della redditività. Tra i critici del QE ricordiamo Richard Koo, che nella sua ultima monografia (2014, Wiley) sottolinea i ‘costi’ presumibilmente molto alti associati all’uscita dal QE, e tuttavia, al recente meeting Ambrosetti di Cernobbio, ne ha sottolineato anche gli aspetti positivi.

Purtroppo, le evidenze empiriche sembrano suggerire che le economie complesse hanno molte gambe, ma spesso fanno poca strada (pensiamo alla “Abenomics”, che negli ultimi mesi sembra avere esaurito impeto). In tale contesto, l’efficacia di una politica economica sembra subordinata all’efficacia complessiva del portfolio di politiche economiche (fiscali, monetarie, industriali) che, congiuntamente, vengono implementate sull’economia. Koo (2014) suggerisce che l’ordinamento temporale di tali politiche possa essere discriminante per gli esiti; lungo una linea di pensiero per certi versi analoga, la nostra metafora suggerisce che il coordinamento delle politiche dovrebbe essere il primum movens, rispetto al quale identificare tempi e scala (intensità) delle singole politiche.

Concludendo, sembra delinearsi un “problema” per la divisione del lavoro in politica economica. Tale divisione è sicuramente giustificata da motivi organizzativi e di specializzazione: pare inevitabile che le politiche monetarie siano concepite e implementate dalla banca centrale, le politiche fiscali dal governo, le politiche territoriali dagli organi di governo territoriali, e così via. Detto ciò, le evidenze empiriche sembrano mostrare che il coordinamento di tali politiche sia in realtà il punto chiave, in quanto le politiche economiche interagiscono; gli effetti dell’una influenzano gli effetti dell’altra, e l’effetto complessivo tipicamente non è la somma degli effetti che le politiche avrebbero determinato singolarmente, come la strada percorsa dall’animale non è la somma dei passi, se le gambe non si coordinano opportunamente.

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