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Ma che c’entra David Bowie con la grande crisi del 2008?
Se di musica rock ne sapete quanto me o l’onorevole Gasparri, è probabile che la diffusa commozione per la morte di David Bowie – al netto, magari, di un’istintiva simpatia per il personaggio – vi abbia lasciati piuttosto indifferenti. E tuttavia, scavando appena più a fondo, si scopre che i motivi d’interesse nella biografia dell’istrionico cantante inglese si spingono al di là dei profili artistici, strettamente intesi. Oltre ad aver innovato nei campi dello spettacolo e del costume, infatti, Bowie ha saputo indicare nuovi orizzonti al mondo della finanza, aprendo la via ai celebrity bond, le obbligazioni delle star.
La storia è stata rievocata da Alphaville: nel 1997 – con la collaborazione di David Pullman, banchiere d’affari con il pallino della musica – Bowie cartolarizzò le royalty derivanti da un accordo che autorizzava la EMI a ripubblicare gran parte della sua produzione anteriore al 1990. I Bowie bond, i primi nel loro genere, promettevano un interesse annuo del 7,9%, oltre alla graduale restituzione del capitale, che avrebbe portato all’autoliquidazione dei titoli in dieci anni. Furono acquistati per 55 milioni di dollari, in gran parte impiegati dal cantante per riacquistare i diritti relativi ad altri brani del proprio repertorio, di cui nel frattempo aveva perso il controllo.
Il bilancio dei Bowie Bond è controverso: inizialmente salutati da Moody’s con un rating piuttosto lusinghiero di A3, le obbligazioni furono declassate nel 2004 a Baa3, appena un gradino sopra i titoli spazzatura. Le prospettive per l’industria musicale si facevano grigie: la rivoluzione di Napster e dei suoi emuli aveva già investito le major, ma la controrivoluzione di iTunes e poi di Spotify era ancora a uno stadio embrionale.
Per inciso – ed è forse l’aspetto più interessante della vicenda – non si può dire che queste trasformazioni avessero colto Bowie di sorpresa: tutt’altro. Nel 2002, intervistato dal New York Times, affermava con sicurezza che la musica sarebbe diventata qualcosa di simile all’elettricità o all’acqua corrente, che il futuro dell’industria risiedeva nelle esibizioni dal vivo e persino che il diritto d’autore si sarebbe estinto nell’arco di un decennio. Tanto valeva monetizzare l’ultima stagione di vacche grasse.
Nonostante l’imprevedibilità dello scenario, i Bowie bond furono regolarmente rimborsati, e simili strumenti furono in seguito impiegati da artisti come James Brown, Marvin Gaye, Rod Stewart e gli Iron Maiden. Soprattutto, essi ispirarono la creazione di obbligazioni sempre più fantasiose e garantite dalle attività più disparate. Per restare alla proprietà intellettuale, sono stati oggetto di cartolarizzazione diritti cinematografici, brevetti farmaceutici, marchi della ristorazione, fumetti (come i Peanuts) e libri (per esempio, quelli di John Steinbeck).
Barclays stima che il mercato varrà 45 miliardi nel 2016, oltre un quinto del totale delle obbligazioni garantite da attività.
Quando si parla di asset-backed securities, la mente corre alla loro versione più tristemente nota: quelle mortgage-based securities che contribuirono a innescare la recessione di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze. Al di là di una serena analisi dei nessi causali, la crisi dei mutui subprime, più di ogni altra vicenda, ha alimentato un’ostinata sfiducia nel ruolo della finanza, la cui funzione è caratterizzata come astratta e pervasiva: e cosa c’è di più astratto di un’obbligazione garantita da canzonette?
A ben vedere, però, storie come quella dei Bowie bond aiutano a rimettere le cose in una prospettiva più equilibrata. Il compito dell’industria finanziaria è quello di far fluire le risorse dove più possono essere utili, ampliando la frontiera delle possibilità. È un compito rischioso e che richiede una certa spregiudicatezza? Senz’altro. Ma è anche ciò che permette il decollo di iniziative altrimenti di respiro assai più contenuto.
Pensateci, la prossima volta che ascolterete una canzone di David Bowie. L’ingegneria finanziaria al servizio dell’arte.
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