Quanto è importante uno Sharing Economy Act per l’economia italiana?

scritto da il 14 Dicembre 2015

Pubblichiamo un post di Benedetta Arese Lucini, imprenditrice dell’economia 2.0. Dieci anni di esperienza in giro per il mondo, in 8 paesi e 3 continenti. Da qualche anno prova a portare l’innovazione anche nel suo Paese, prima come country manager di Uber, poi come consulente per diversi fondi venture capital e startup –

UNO SHARING ECONOMY ACT PER L’ITALIA

di Benedetta Arese Lucini

In Italia e nel mondo ci sono sempre più piattaforme che promuovono servizi di matching tra un utilizzatore che richiede un bene o un servizio, e un altro che è in grado di fornirlo condividendo il suo bene e il suo tempo. Ma ancora oggi governi e regolatori rimangono silenziosi nel definire l’inquadramento di questo nuovo tipo di lavoro e lavoratore.

Con i dati Istat sulla disoccupazione che evidenziano un rialzo del numero di inattivi nell’ultimo anno, è evidente che il contratto e la ricerca di lavoro tradizionale sono ormai superati: sempre più persone non si affidano più al sistema e rinunciano a cercare un lavoro. Ma il nuovo lavoro on demand potrebbe aver influenzato la decisione di inattività, data la possibilità di trovare un reddito alternativo?

Molte volte queste piattaforme ribadiscono che i loro utilizzatori sono in maggioranza temporanei con un reddito molto marginale, ma alla fine questo movimento è ancora molto nuovo, nato con l’inizio della crisi economica del 2008, e il lavoratore non sa come conformarsi o come poterne usufruire a pieno senza un’adeguata regolamentazione.

Airbnb ha pubblicato proprio pochi giorni fa per la prima volta dei dati sui redditi degli host, coloro che affittano le proprie case, nella città di New York. Possiamo così analizzare alcuni trend sulla distribuzione della forza lavoro on demand. Sui 59.000 appartamenti in affitto solo il 16% è disponibile per più di 121 giorni all’anno mentre oltre la metà sono disponibili da uno a 30 giorni. Il numero medio di notti in affitto per anno per gli appartamenti è 42, che vuol dire 3,5 notti al mese. Questo dimostra che un grande numero di host è davvero un lavoratore occasionale, con una media di introito per host di 10.000 dollari l’anno, decisamente un reddito non elevato.

D’altra parte la piattaforma non ha un tetto massimo e un migliaio di questi annunci porta al proprio host  tra i 50.000 e i 350.000 dollari all’anno. Inoltre, il  25% del fatturato della piattaforma è di host che hanno più di un annuncio online, quindi utilizzano il sito a scopo commerciale. La distribuzione così variata del lavoro on demand ovviamente complica la regolamentazione, non facilitando neanche il trattamento fiscale di questi introiti non definiti.

In questo Airbnb non è l’unica. Anche i numeri sui driver di Uber pubblicati da Princeton University all’inizio del 2015, dimostrano che il gruppo dei lavoratori on demand è disomogeneo: per il 38% disoccupati, per il 32% con lavoro a tempo pieno e per il 30% con un part-time. Inoltre, un altro dato interessante è che i lavoratori on demand hanno di solito più di un’unica fonte di reddito e che una singola piattaforma come Uber è la maggiore fonte solo per il 16 per cento.

Ma questo cosa vuol dire? Analizzando meglio la forza lavoro Italiana, e anche quella di inattivi, si può forse capire che il mondo del lavoro sta cambiando; il lavoratore stesso si sta adeguando molto più velocemente di chi scrive le regole. A questo punto il reddito delle piattaforme di lavoro on demand o della sharing economy, che secondo uno studio di PWC potrebbe arrivare a 335 miliardi entro il 2025, rimane completamente de-regolato.

La crescita delle piattaforme è aiutata da queste nuove esigenze, ma finché non si supera il loro inquadramento, gli Stati non ne potranno pienamente beneficiare e neanche i loro cittadini. È chiaro che uno Sharing Economy Act sarebbe non solo importante ma essenziale oltre che un possibile aiuto all’economia del lavoro in Italia.

Twitter @dettaarese