Così i lavori della sharing economy risvegliano l’homo erectus che è in noi

scritto da il 06 Ottobre 2015

Pubblichiamo un post di Carlo Muzzarelli, esperto di risk assessment e startup. Dopo una lunga carriera in General Electric nel 2013 fonda WeRISK, azienda specializzata nella formazione e consulenza aziendale. Rappresenta l’Italia nel Working Group ISO31010 – 

IL LAVORO IPERFLESSIBILE È IL FUTURO O UN RITORNO AL PASSATO?

di Carlo Muzzarelli

Il 30 Settembre Amazon ha lanciato Amazon Flex, servizio che permette a chi ha 21 anni, possiede uno smartphone Android (quindi è meno brillante e ricco di chi possiede un iPhone), la patente e un’auto di candidarsi a “trasportatore di pacchi” in autonomia per guadagnare tra 18 e 25 dollari l’ora.

Con 4 ore al giorno per 22 giorni al mese, tipico part-time, si riceverà un compenso mensile compreso fra i 1.500 e i 2.200 dollari (1400-1900 euro circa). Se si deciderà (o sarà permesso, non si conoscono ancora le regole) di lavorare per 11 mesi l’anno si potrà guadagnare una somma media lorda di quasi 21mila dollari, oltre 18mila euro. Negli Stati Uniti si tratta di una somma consistente per una attività che non richiede alcuna competenza specifica, quindi assimilabile a quelle per le quali si applica normalmente il salario minimo legale che Amazon più che raddoppia per chi si candida per Flex.

Se Amazon, startup “cattolica” secondo la definizione di Bob Sutton e Huggy Rao, esporterà Flex in Europa i paesi con disoccupazione più elevata, tra i quali c’è l’Italia, saranno i candidati naturali. Usando gli importi descritti prima un abitante delle Marche (regione presa a caso) celibe, senza figli a carico che lavora solo per Amazon Flex avrebbe un introito mensile netto medio (su 12 mensilità) di € 1.200. Si tratta di una somma importante che sembra dare validità all’idea che i lavori temporanei della “nuova economia” possano essere molto interessanti. Vero è che dall’importo netto vanno detratte le spese di carburante e manutenzione del mezzo, ma nessuno le rimborsa ai normali impiegati che vanno a lavorare 8 ore al giorno per stipendi netti simili o inferiori.

Immaginando che i clienti avranno un servizio identico o migliore a parità di prezzo o che potranno risparmiare, Amazon non avrebbe avviato Flex senza pensare di avere un guadagno economico o reputazionale. Si tratta quindi di una situazione nella quale tutti, aziende di trasporto merci a parte, hanno un beneficio? Non proprio.

Come scrive bene Alex Hern sul Guardian i lavori di questo tipo hanno la principale particolarità di non offrire alcuna garanzia di essere continuativi e quindi non offrono la sicurezza di riuscire ad arrivare alla fine del mese, a meno di non impegnarsi su più fronti come fanno quegli autisti che lavorano sia per Uber che per Lyft per arrontondare i magri guadagni che nascono dall’utilizzare maggiormente un bene, l’auto, durante il proprio tempo libero.

Questa è, in fondo, la teoria propugnata da Michael Spence, che però dimentica di completare l’equazione complessiva che sta alla base della “sharing economy”: a parità di consumatori e di volume di acquisti il maggiore utilizzo di beni sotto-utilizzati si traduce nel minore utilizzo di quelli destinati “ufficialmente” a svolgere tale compito. Hotel e bed&breakfast subiscono la concorrenza di Airbnb, taxi e NCC quella di Uber, Uberpop e simili.

Sono comunque tanti coloro che, come Spence, vedono la “gig economy“, l’economia basata su coloro che in Italia chiamiamo “partite IVA”, come un buon futuro, se non l’unico, per il mondo occidentale.

Le due principali spiegazioni a supporto di questa tesi per il mercato italiano sono che il lavoro non è abbastanza flessibile, è cioè impossibile variare il numero dei dipendenti in base al carico di lavoro aziendale, e che il costo del lavoro è troppo alto per competere con i paesi che offrono ai dipendenti meno garanzie. Una maggiore flessibilità unita a minori garanzie rendono ovviamente il “fare impresa” meno costoso e quindi maggiori i guadagni dell’imprenditore e degli azionisti che sono quindi più invogliati a investire nell’azienda.

A questo qualcuno aggiunge che tra essere disoccupati e avere un lavoro senza garanzie che fa guadagnare poco è meglio il secondo: effettivamente tra pena di morte ed ergastolo quasi tutti sceglierebbero il secondo perché “nella vita non si sa mai” o “prima o poi troveremo qualcuno (solitamente un politico) che ci darà una mano”. Il precariato istituzionalizzato può quindi essere considerato “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, come prevede la nostra Costituzione?

Il nocciolo della questione sta nella definizione di progresso. Può il ritorno generalizzato al lavoro a cottimo e il ricorso a competenze esterne al bisogno, perché di questo si tratta, rappresentare un progresso rispetto ad un’economia basata sul possesso e sviluppo interno delle competenze come fattore competitivo?

L’altro aspetto importante è che una delle parole chiave usate per propugnare questo cambiamento è che si tratta di innovazione, di economia 2.0 (e oltre). Ma i “gig labor” rappresentano davvero un’innovazione o anche solo una novità?

La risposta a queste domande è un secco “no” e si ottiene con un lungo passo indietro a oltre 10mila anni quando in molti luoghi del pianeta l’Homo erectus e altre specie di Homo sue contemporanee vivevano di raccolta di cibo e caccia, attività occasionali che svolgevano solo quando avevano fame. Quando un tipo di vegetale o di animale scarseggiava, i fenomeni naturali rendevano un luogo inospitale o la loro curiosità li spingeva, cambiavano zona o alimenti.

L’Homo erectus lavorava solo per nutrirsi. Visse così per circa un milione di anni e la sua evoluzione è rappresentata dalla civiltà di Homo sapiens sapiens dei Natufiani che, nell’area della attuale Turchia orientale, dopo esser stati per migliaia di anni raccoglitori e cacciatori come gli erectus, verso il 10.000 avanti Cristo cominciarono a cambiare le proprie abitudini fondando villaggi e coltivando cereali, in particolare il grano.

Questo nuovo stile di vita non permetteva più di limitare il lavoro al momento del bisogno e richiedeva attività e posture per le quali il corpo dell’Homo non era strutturato. La disponibilità di maggiore cibo in un territorio ben circoscritto provocava la prima rivoluzione agricola: si formavano comunità stabili nelle quali le attività necessarie alla sopravvivenza e al benessere della comunità erano ripetitive e costanti.

Il cambiamento portava con sé un effetto dirompente: la possibilità di ridurre le competenze necessarie ad ogni individuo per la sopravvivenza. Un erectus per sopravvivere e prosperare doveva avere moltissime competenze; a un Natufiano prima e a un sapiens poi bastavano poche competenze perché la sopravvivenza era dovuta all’essere parte di una comunità. Le competenze erano trasmesse all’interno di ogni famiglia che acquisiva un ruolo grazie a ciò che portava alla comunità, ricevendo dalle altre famiglie ciò che i suoi componenti non erano in grado di fare.

Il singolo cominciava quindi ad asservirsi alla comunità ricevendone in cambio la possibilità di raggiungere lo stile di vita che la comunità aveva stabilito come “adeguato”. In questo contesto gli individui si dividevano per tipo di competenze: quelle per compiere attività standard e ripetitive sempre necessarie alla comunità e quelle speciali (costruire una diga, realizzare un ponte, bonificare un territorio, inventare un nuovo strumento) che erano però necessarie solo in modo occasionale.

Chi aveva competenze speciali si trovava a scegliere tra spostarsi per metterle a frutto al meglio quando ne ha bisogno per vivere (quindi un po’ tornare allo stile di vita dell’Homo erectus oppure sviluppare competenze diverse ma più frequentemente utili alla comunità. In questo secondo caso però entrava in competizione con chi già aveva quelle competenze e doveva quindi accontentarsi di quanto riusciva a “spuntare”, avendo come valore più importante non più il proprio tempo libero e la massimizzazione dell’utilità delle proprie competenze ma l’essere parte della comunità.

Il mondo del lavoro continuò per secoli a separare chi veniva pagato per mettere a disposizione “in esclusiva” le sue competenze da chi veniva pagato per lavori che potevano essere fatti da molti e che venivano assegnati a chiunque si rendesse disponibile quando necessario e si accontentava di quanto offerto in pagamento.

I lavori della “gig economy” sono esattamente questo: incarichi per i quali sono necessarie competenze delle quali c’è eccessiva disponibilità (e qui è enorme la responsabilità delle “fabbriche di lauree” figlie del 1968) da eseguire per un periodo di tempo limitato ad un prezzo stabilito dal mercato senza avere alcuna garanzia aggiuntiva. Chi li indica come progresso o innovazione non ha studiato la storia oppure cerca di imbrogliarci, e io propendo per la seconda tesi.

Resta il fatto che il mondo del lavoro pare orientato a modificarsi in questo senso e quindi la cosa da capire è cosa possiamo fare per riuscire a vivere una vita con un numero gestibile di incertezze, tra le quali possibilmente evitare quella di avere un tetto solido sopra la testa e del cibo in tavola.

L’unica risposta ragionevole, che è poi quella che andrebbe applicata ai modelli di macroeconomia che ci hanno portato in questa situazione, è ammettere che il mondo è cambiato troppo velocemente per le nostre capacità di comprensione e ripartire da zero rivedendo i nostri bisogni e soprattutto i nostri valori.

Twitter @muzzarca