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I pericoli di un doppio sistema monetario. La crisi di Firenze del ‘300, per esempio…
“…il fiorino d’oro ogni dì calava, ed era per calare da libre III in giù; onde i lanaiuoli, a cui tornava a interesso, perché pagavano i loro ovraggi a piccioli, e vendeano i loro panni a fiorini, essendo possenti in Comune, feciono ordinare al detto Comune nuova moneta d’argento e nuovi quattrini, piggiorando l’una e l’altra moneta per lo modo diremo apresso, acciò che ’l fiorino d’oro montasse, e non abassasse.” (1)
Con queste parole il cronista dell’epoca Giovanni Villani descriveva le manovre del Comune di Firenze per ovviare alla crisi monetaria che, dopo quelle bancaria e di debito pubblico che ho narrato nei precedenti post, colpì l’economia fiorentina nel decennio del 1340.
Prima di narrare quegli avvenimenti è però necessario spiegare il sistema monetario medievale e quello di Firenze in particolare. Seguitemi dunque per qualche paragrafo e scoprirete come i problemi e le soluzioni di 700 anni fa rimangono molto simili a quelli di oggi.
In tutta l’Europa occidentale il sistema monetario per secoli fu quello di derivazione carolingia basato sull’argento e sulla sua misura di peso principale: la libbra, corrispondente a circa 404-409 grammi. La libbra era a sua volta divisa in 20 soldi ognuno dei quali a sua volta diviso in 12 denari. Dalla libbra carolingia derivano tutte le valute col nome di “lira”, compresa quella italiana, o “pound” (in inglese appunto libbra) come la lira sterlina britannica che, fino al 1971, mantenne pure la divisione in soldi (scellini) e denari (penny), mentre le altre subirono la decimalizzazione imposta dal pensiero illuminista e dal Franco Germinale rivoluzionario.
A complicare le cose le monete coniate nei vari luoghi avevano valori facciali diversi e valori intrinseci ancora più diversi a seconda della quantità di argento contenuta per cui, quando nel XIII secolo, l’Europa occidentale, ed in specie le città mercantili italiane, soppiantò il declinante Impero Bizantino nei commerci mediterranei, ci fu la necessità di monete in grado di essere accettate negli scambi internazionali.
La maggior parte delle città italiane di conseguenza coniarono pesanti monete argentee, i famosi Grossi, col valore facciale di vari denari, il più diffuso dei quali era quello di Venezia. Grazie all’afflusso di oro dall’oriente Firenze fu invece anche in grado di coniare con continuità il suo famoso Fiorino, una moneta d’oro zecchino, che all’inizio doveva avere il valore facciale di una lira, unità monetaria mai coniata in precedenza in argento per il suo peso troppo elevato.
Era però il valore intrinseco dell’oro a stabilire il valore del Fiorino rispetto alle monete argentee e quindi nel 1388 il sistema monetario fiorentino era composto dalle seguenti monete:
Fiorino, dal valore di circa 744 denari
Grosso, dal valore di 30 denari
Quattrino, dal valore di 4 denari
Denaro picciolo (2)
L’elevato valore intrinseco del Fiorino e la sua continua rivalutazione sulle monete argentee creò ben presto un doppio sistema monetario: uno appunto basato sul Fiorino, detto moneta “grossa”, che veniva usato per tutte le transazioni internazionali, all’ingrosso o finanziarie, come i mutui ed i prestiti ad interesse; l’altro sulla moneta argentea, detta moneta “piccola”, per i salari dei lavoratori, per le transazioni economiche quotidiane e quindi anche per gli incassi dei piccoli artigiani e commercianti.
Una simile struttura monetaria aveva, come nei casi di “dollarizzazione” ancora oggi presenti nei paesi emergenti che hanno caratteristiche molto simili, una profonda connotazione di “classe”.
Gli imprenditori lanieri fiorentini, che esportavano e quindi incassavano in fiorini, pagavano i loro operai invece in moneta piccola, quindi ogni rivalutazione del fiorino e conseguente svalutazione delle monete a base d’argento, incrementava i loro profitti aumentandone la competitività. Uguali vantaggi avevano tutti i percettori di redditi in fiorini: i banchieri, i mercanti, i grandi proprietari terrieri che vendevano la loro produzione all’ingrosso, i grossi professionisti, come i giureconsulti, i notai ed i grandi funzionari pubblici.
Queste classi sociali, riunite nella società corporativa medievale delle Arti Maggiori, lucravano sul ritardo dell’adeguamento dei prezzi interni e dei salari rispetto alla svalutazione della moneta piccola, che era invece quella che percepivano i contadini, i salariati e i piccoli commercianti ed artigiani delle Arti Minori. Il fatto poi che i beni di maggiore importanza, come appunto gli immobili, e gli strumenti finanziari necessari al loro acquisto o uso, come mutui ed affitti, fossero quasi tutti regolati in fiorini, da una parte poneva una forte barriera alla mobilità sociale, dall’altra convogliava il risparmio verso la moneta aurea, aumentandone vieppiù il valore a scapito della moneta piccola.
Tale era l’importanza nel mantenere tali sistemi il più possibile separati, con i relativi vantaggi per alcuni e svantaggi per altri, che diverse leggi del Comune di Firenze vietavano quello che oggi chiameremmo la “scala mobile”, cioè l’aggancio dei salari e dei prezzi al corso del Fiorino. Di conseguenza ogni problema economico che poteva risolversi tramite la valvola inflazionistica veniva scaricato sulla moneta piccola, mentre il Fiorino d’oro manteneva il suo valore assieme al predominio economico e politico delle classi sociali il cui reddito e patrimonio si basavano su esso.
Spiegato il funzionamento del sistema monetario fiorentino, capirete adesso quale effetto negativo, oltre alle crisi bancarie e di debito pubblico, ebbe negli anni del 1345-47 l’elevata e repentina rivalutazione dell’argento rispetto all’oro.
Le sue cause ancora non sono chiare ma furono sicuramente molteplici: l’esaurimento di parte delle miniere boeme, allora fornitrici di buona parte dell’argento europeo, il continuo afflusso d’oro dal Nord Africa e dall’Oriente tramite Venezia che lo pagava in argento, un generale aumento del prezzo dell’argento in tutto l’Oriente fino alla Cina: fatto sta che da un rapporto di 1 a 14 si arrivò fino ad 1 a 10 con una rivalutazione di circa il 30%.
L’ondata deflattiva conseguente si sommò a quella esistente per le altre due crisi: la moneta argentea con un valore intrinseco superiore al facciale, in special modo i Grossi, veniva rastrellata dagli speculatori per essere rifusa in lingotti e venduta sul mercato; inoltre, una vera e propria carenza di base monetaria, come la chiameremmo oggi, minacciava di fare completamente saltare gli equilibri, prima economici e poi politici.
La soluzione fu una svalutazione dell’intrinseco del Grosso, attraverso la creazione di una nuova moneta che, con intrinseco d’argento maggiorato, aveva però un valore facciale più alto del 20% passando da 30 a 48 denari, cioè da 2 soldi e mezzo a 4. Fu un colpo di genio psicologico che servì a mantenere al Grosso comunque un valore abbastanza elevato ed evitare che diventasse vera e propria “moneta picciola”. Tale fu il successo che fu ripetuto pochi anni dopo portando il facciale del Grosso a 5 soldi con un incremento però dell’intrinseco di solo il 13%.
“E trassesi di zecca di prima a dì XII d’ottobre del detto anno, e fu molto bella moneta colla ’mpronta del giglio e di santo Giovanni, e chiamavansi i nuovi guelfi; ed ebbe grande corso in Firenze e per tutta Toscana” (3)
Per il Quattrino invece si decise una svalutazione diretta della intrinseco d’argento del 18%. Contemporaneamente, stante la “fame” di entrate del Comune di Firenze per le vicende già narrate e approfittando della ristabilita convenienza per i privati a far coniare l’argento sfuso, fu elevata per entrambe le monete la percentuale di signoraggio, cioè la percentuale che andava al Comune che gestiva la zecca.
Le tre crisi che colpirono Firenze ebbero anche un importante riflesso politico. Il predominio delle Arti Maggiori sul Comune fu spezzato e i rappresentanti delle Arti Minori assunsero sempre più peso all’interno della gestione dello stesso. Tale posizione di maggiore forza si evidenzia proprio nella gestione della svalutazione del Grosso e del Quattrino, che si limitarono a quanto effettivamente necessario a combattere la speculazione dovuta alla pesante rivalutazione dell’argento.
A pagare in tal modo per la maggior parte la crisi furono i ceti popolari, specialmente i salariati, le cui condizioni economiche sempre più disagiate sfociarono nel 1378 nel Tumulto dei Ciompi.
Ma questa, come direbbe un noto giallista italiano, è un’altra storia.
Twitter @AleGuerani
3 – Fine
Post precedenti:
La prima tempesta perfetta della storia e il bank run che non ti aspetti
Dal default “argentino” di Firenze un’idea meravigliosa: i perpetual bond
Note:
1) Giovanni Villani, Nuova Cronica, libro tredecimo, XCVII
2) Carlo M. Cipolla “Il Governo della Moneta a Firenze e a Milano nei Secoli XIV-XVI” pag. 23
3) Giovanni Villani, Nuova Cronica, libro tredecimo, LIII