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Modelli interni e giustizia lenta pesano sui conti delle banche italiane
Qualche tempo fa, a margine delle Considerazioni finali del governatore Ignazio Visco, l’economista Marina Brogi evidenziò sul Sole 24Ore alcuni aspetti dell’Unione Bancaria. In particolare la professoressa Brogi analizzò un aspetto interessante, i modelli interni di valutazione del rischio: “Con il programma di supervisione 2015, concordato per la prima volta a livello comune, è stata avviata l’analisi dei modelli interni applicati dalle banche e validati in passato dalle autorità di vigilanza nazionali”.
“Le banche degli altri Paesi dell’Eurozona presentano rapporti tra gli attivi ponderati per il rischio (calcolati appunto con i modelli interni) e il totale attivo molto più bassi rispetto al 58% delle banche italiane (del 37% per le banche tedesche e francesi e 47% per le spagnole) quindi presentano coefficienti patrimoniali più alti. Una maggiore uniformità tra i modelli interni potrebbe portare ad un incremento dei fabbisogni patrimoniali per le grandi banche degli altri Paesi e questo potrebbe in qualche modo favorire le banche italiane”.
È vero che gli istituti di credito italiani – che seguono il modello classico di banca commerciale – hanno “più capitale di vigilanza”, ma siccome abbiamo sentito più volte la storia del pollo di Trilussa – se io mangio un pollo e tu niente, statisticamente abbiamo mangiato mezzo pollo a testa – è opportuno evidenziare gli scostamenti delle banche che si allontanano dalla media.
I modelli interni di valutazione del rischio (Irb) sono stati applicati dalle banche più grandi – più tardi definite SIFI (Systemically important financial institutions) – al fine di “consumare” meno capitale. Interessa capire se ex-post le stime sul rischio di credito previste dai modelli interni si confermano vicine alla realtà.
Per portare un caso concreto, la Banca Centrale Europea, che ha preso le redini della Vigilanza in Europa, ha chiesto al Banco Popolare di aggiornare le serie storiche di dati utili a validare i modelli interni. In sostanza si deve rispondere alla domanda se le perdite attese ex-post sono state simili alle perdite ex-ante, se il modello è stato un buon previsore. Altrimenti le politiche di accantonamento dei crediti andranno riviste. A Verona sembra siano fermi alle serie del 2011. Bisognerà quindi vedere quanto Common Equity Tier 1 Capital (Cet1) verrà consumato per adeguarsi alla revisione delle serie alla base del calcolo dell’Irb.
Il governatore Visco in un suo recente intervento all’Associazione Bancaria Italiana (ABI) ha proprio concentrato l’attenzione sui modelli interni: “In questa fase il Meccanismo di vigilanza unico, operativo dall’inizio di novembre, sta agendo per livellare quanto più possibile il terreno di gioco nel quale si svolge l’attività degli intermediari oggetto di supervisione. Contribuiscono, ad esempio, al raggiungimento di questo obiettivo le iniziative sul fronte della revisione delle modalità con cui le banche che adottano modelli interni calcolano le attività ponderate per i rischi. Le analisi svolte dalle autorità di vigilanza a livello internazionale mostrano, infatti, che la diversa rischiosità dei portafogli bancari non spiega del tutto la variabilità che si osserva nella quantificazione dei requisiti patrimoniali delle diverse banche”.
Visco è quindi decisamente favorevole a stabilire in Europa un livellamento del campo di gioco – alias level playing field – che, a parte casi particolari, favorirà il sistema bancario italiano. Se guardiamo solo al rapporto tra attività (senza ponderazione) e capitale, vediamo che Deutsche Bank raggiunge dei livelli mostruosi rispetto alle banche nostrane: DB è grande oltre due volte banche come Intesa e UniCredit, eppure risulta avere attività a rischio inferiori alle italiane.
Ignazio Angeloni, componente italiano del consiglio di Vigilanza della BCE, in una recente audizione alla commissione Finanze del Senato, ha spiegato come il sistema Italia svantaggi le banche commerciali. Infatti le lente e farraginose procedure concorsuali allungano i tempi di recupero dei crediti in sofferenza (che ormai hanno raggiunto l’astronomica cifra di 250 miliardi di euro). Per ogni anno di snellimento dei processi di recupero, secondo una stima di Mediobanca, ci sarebbe un impatto positivo sull’utile per azione (nel 2018) pari al 6%, mentre il patrimonio di vigilanza Cet1 salirebbe a livello di sistema di 10 punti base.
L’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nelle Considerazioni finali lette il 31 maggio 2011 scrisse: “Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile: la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i mille giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca mondiale. (…) L’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. Nostre stime indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale”.
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