categoria: Vicolo corto
Chi sta cambiando il calcio (e cosa non funziona)
Lo scoppio di un nuovo scandalo scommesse travolge una delle industrie più importanti del paese: il calcio. Al di là delle dichiarazioni di sdegno del presidente della Repubblica, Mattarella, e del presidente del Consiglio, Renzi, vorremmo vedere qualcuno che unisce i puntini: scopriamo infatti che tra le squadre coinvolte c’è anche la Salernitana di Claudio Lotito, impossibile non ripensare alle intercettazioni che emersero qualche tempo fa sull’inopportunità – a suo giudizio – di permettere a Carpi e Frosinone di arrivare in serie A, per tutelare il business di tutte le parti in gioco.
Di questo sport al contrario, dove chi ricopre incarichi di vertice dimostra allergia al basilare “vinca il migliore” occorre analizzare ciò che non va, ma anche dare un occhio ai modelli che funzionano, perché dicono molto di dove il calcio sta andando.
Le società di calcio sono, in sostanziale totalità, attività in perdita. Le spese sostenute per ingaggiare e stipendiare i giocatori, oltre a tutti gli oneri ordinari di una società sportiva, non vengono quasi mai coperte dalle entrate che derivano dai biglietti, dai diritti TV (dove ci sono) e da sponsorizzazioni e vendita di spazi pubblicitari. Nelle serie minori i casi di fallimento sono molteplici, e tra le grandi ci sono casi eclatanti come quello del Manchester City, capace di spendere un miliardo di euro in quattro anni per tesserare giocatori e vincere uno scudetto, facendo peraltro poca strada in Europa.
Eppure il calcio riesce ad attirare “investitori”.
Il possesso di una impresa di questo genere comporta una sorta di dividendo intangibile: la possibilità di entrare nell’ingranaggio perverso del calcio-scommesse potrebbe essere la prima cosa che salta in mente, ma non è l’unica. Possedere una società di calcio crea delle cointeressenze con gli enti locali per l’uso ed il rinnovamento delle infrastrutture sportive, la creazione di eventi, e permette di acquisire “consenso” nel senso di appoggio popolare o pubblica indulgenza per qualche eventuale malaffare che dovesse emergere.
Senza contare che i bilanci zeppi di valori aleatori, come il prezzo dei “cartellini” dei giocatori, si prestano a diventare strumenti efficaci per il riciclaggio di denaro. A tutto questo si aggiunge il particolare privilegio di cui le società di calcio godono: nonostante la loro dimensione economica sia irrilevante possono spesso contare sul soccorso della mano pubblica, pronta – per ragioni sociali non dissimili dalle dinamiche panem et circenses – a promulgare decreti “salva-calcio” per il sistema o provvedimenti “spalma-debiti” per singoli casi di difficoltà.
Tutto questo andrebbe combattuto investendo in cultura sportiva, in controlli più severi, in punizioni esemplari e radiazioni, nel caso. Invece chi si espone denunciando i fatti, come fece il calciatore Simone Farina nel 2011, viene tagliato fuori dal sistema anziché premiato per la scelta di integrità morale.
Guardando invece ai modelli che funzionano un caso emblematico sembra essere quello del Porto. La società lusitana riesce con grande regolarità, da oltre 10 anni, a perfezionare redditizie cessioni di giocatori: il totale degli incassi di questo tipo negli ultimi 10 anni supera i 700 milioni di euro, tutti in plusvalenza. Il bilancio tra vendite ed acquisti medio complessivo del decennio è di circa 2:1.
Nonostante questa clamorosa capacità di rivalutare i giocatori e di monetizzare con regolarità, il bilancio del Porto ha segnato un rosso di oltre 40 milioni di euro quest’anno. Il motivo di questo, a prima vista inspiegabile, mistero sta nella dipendenza del mercato della società dalle attività dei TPO.
TPO (Third Party Ownership)
Si tratta di un meccanismo con cui alcuni fondi di investimento acquisiscono parte dei cartellini dei giocatori, partecipando alla loro rivalutazione. L’attività di questi fondi esula completamente dall’ambito sportivo e si indirizza esclusivamente sulla capacità finanziaria. Facciamo un esempio concreto: il Porto ha acquistato Yacine Brahimi dal Granada per 6,5 milioni di euro.
L’operazione è stata perfezionata con il sostegno finanziario del fondo Doyen Sports Investments di Nelio Lucas (quello che parteciperebbe all’acquisto del Milan da parte dell’ormai noto broker thailandese Bee Taechaubol); il fondo nell’accordo ha ottenuto di rilevare l’80% del cartellino per 5 milioni, dunque con uno sconto: sulla base di 6,5 milioni pagati per il calciatore, l’ottanta per cento avrebbe dovuto valere 5,2 milioni. In un’altra clausola viene fissato il costo di riacquisto da parte del Porto in 8 milioni di euro.
Il fondo si garantisce quindi una commissione del 4% iniziale ed un profitto del 60% sull’investimento a fronte di due forme di sostegno alla società: il supporto economico nell’acquisto del giocatore e l’utilizzo della propria influenza per facilitarne il trasferimento in futuro.
Dunque di quel rapporto 2:1 tra cessioni ed acquisti ricade solo in parte sul bilancio del Porto, che anzi deve garantire al proprio “socio” in affari lauti profitti. È così che arriva a registrare – comunque – delle perdite. Questi fondi infatti, sfruttando la debolezza economica delle società, si mettono in condizioni di forza e da questa possono imporre come titolari i calciatori assistiti dai procuratori ad essi collegati. Il meccanismo ha una efficacia perversa, perché i giocatori, rendendosi conto dell’influenza di certi procuratori, finiscono per gettarsi spontaneamente nella rete, facendo accrescere l’influenza di questi soggetti oscuri, che di sportivo non hanno un bel niente.
Vediamo un caso pratico: Jorge Mendes, il potentissimo procuratore di José Mourinho, di Cristiano Ronaldo e Angel Di Maria (tanto per citare alcuni tra i più noti), attraverso la sua Gestifute:
- È consulente di 5 fondi di investimento che acquistano quote di calciatori.
- Dichiara apertamente di avere un conflitto di interessi, come procuratore dei giocatori di proprietà dei fondi di cui è consulente
- Quando il valore del cartellino di un calciatore sale, i fondi che godono della consulenza di Mendes ottengono un aumento delle loro quote di proprietà dei giocatori in caso si scelga il rinnovo del contratto anziché la cessione
- Mendes stesso rivendica, a testimonianza dell’efficacia del suo lavoro, di aver gestito il 68% di tutti i trasferimenti di Sporting Lisbona, Benfica e Porto, nel decennio 2001-10.
Senza un sistema di regole adeguato ai tempi il meccanismo è intrinsecamente accentratore, le società che potranno avere successo sportivo saranno quelle che si consegneranno a questi padroni, dando spazio ai loro giocatori e inseguendo rivalutazioni che pur sembrando folli, sono necessarie. E, per funzionare, questo schema necessita di una polarizzazione dei valori sportivi verso cui il sistema calcio sta già andando: il Porto riesce a realizzare quelle vendite perché gode ogni anno della vetrina della Champions League, l’appiattimento dei valori che garantisce sempre agli stessi club di partecipare alle coppe è funzionale a dare stabilità a questo business.
L’incertezza di risultati sportivi determinati da un ingenuo “vinca il migliore” provoca un danno a chi tiene sempre più saldamente le redini di questo sistema. In quest’ottica le intercettazioni di cui parlavamo ad inizio articolo assumono un significato più ampio e più grave, su cui non sappiamo quanto la Federazione ed il Coni stiano realmente riflettendo.
Twitter @AndreaBoda