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Dilemma Brexit, ovvero fino a che punto arriva l’autolesionismo
Il voto del Parlamento britannico sull’accordo di separazione per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, ha vanificato oltre un anno di negoziati tra le parti. Si tratta di una decisione gravida di conseguenze, dato che in mancanza di novità di rilievo il Regno Unito il 29 marzo 2019 uscirà dall’UE senza accordo.
In tale eventualità, si applicherebbero le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nei rapporti bilaterali, con il ritorno di dazi e tariffe negli scambi, senza accesso preferenziale del Regno Unito al mercato unico europeo né forme di cooperazione in settori non strettamente economici come la lotta al crimine o al terrorismo.
Ciononostante, il Parlamento di Westminster ha preferito il rischio di uscire dall’UE senza accordo piuttosto che osservare quello siglato dal governo May, giudicato troppo lontano dagli obiettivi inizialmente perseguiti dalla Gran Bretagna con la Brexit. Ma lo scostamento tra quanto desiderato e quanto ottenuto finora chiama in causa, prima ancora che la debolezza del governo britannico nella trattativa con l’Unione europea, le responsabilità politiche dei promotori del referendum sulla Brexit per una decisione che sta assumendo i contorni di un atto di autolesionismo.
Tali responsabilità politiche fanno capo all’ex premier britannico David Cameron, predecessore di Theresa May anche come capo del partito Conservatore, il quale in occasione della propria ricandidatura a premier nelle elezioni politiche del 2014 agì sulla base di un manifesto che conteneva la volontà di indire una consultazione popolare sull’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Promessa elettorale utile a sedare l’ascesa dei partiti populisti euroscettici come l’UKIP di Farage, contrastare il partito laburista pro-UE e tacitare l’ala più radicale all’interno del suo stesso partito. In politica estera però l’obiettivo era rinegoziare ulteriori clausole di favore per la Gran Bretagna – soprattutto in materia di libera circolazione delle persone, anche di nazionalità UE – mediante la modifica dei trattati europei. Tanto è vero che, indetta la consultazione, Cameron si schierò pubblicamente per il Remain.
L’esito del referendum, premiando i fautori dell’uscita dall’UE e le loro promesse di ripristino della piena sovranità statuale senza elevati costi per il Regno Unito, causò le dimissioni di Cameron e la successione dell’attuale premier conservatrice, Theresa May, portando alla luce l’azzardo politico di chiamare il popolo britannico a pronunciarsi su una materia così divisiva (51,9% di voti per il Leave e 48,1% per il Remain), con notevoli diversificazioni territoriali in grado di minacciare l’integrità del Paese. In Scozia e Irlanda del Nord, infatti, la maggioranza si pronunciò per il Remain (rispettivamente, col 62% e 55% dei voti), così come a Londra in cui quasi il 60% dei votanti si espressero per restare nell’UE, in contrasto rispetto al resto dell’Inghilterra, Galles incluso, favorevole all’uscita dall’Unione.
L’ostilità del Parlamento britannico è peraltro comprensibile. Innanzitutto poiché è diventato chiaro che l’accordo di separazione è fonte di diritto dell’Unione europea, immodificabile unilateralmente, sovraordinato alla legge britannica e soggetto alla giurisdizione della Corte di Giustizia dell’Unione europea che resta l’arbitro di ultima istanza per la sua corretta interpretazione e applicazione.
Dal punto di vista pratico, inoltre, l’accordo prevedeva un periodo transitorio a legislazione vigente fino a fine 2020, termine coincidente con l’attuale budget finanziario UE (Multiannual Financial Framework 2014-2020), utile per preparare cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni da ambo le parti all’uscita del Regno Unito dall’Unione, preservando il diritto di vivere, lavorare e studiare dei cittadini UE che, al termine del periodo di transizione, risiedevano in Gran Bretagna e viceversa.
Durante la fase transitoria, il Regno Unito sarebbe rimasto vincolato all’UE come uno stato membro, tenuto a rispettare integralmente l’acquis unionario, incluse le prerogative giurisdizionali della Corte di Giustizia dell’UE e gli oneri finanziari derivanti dalla partecipazione al budget dell’Unione, ma con la cruciale differenza di non poter più partecipare al processo decisionale. Poiché già durante il periodo transitorio il Regno Unito avrebbe perso i propri rappresentanti nelle istituzioni dell’UE e sarebbe rimasto fuori dal Consiglio europeo, perdendo inoltre i settantatré seggi ad esso riservati al Parlamento europeo.
Terminata la fase di transizione, la Brexit si sarebbe definitivamente compiuta. Sul punto, l’aspetto fondamentale da sottolineare – e che è risultato indigeribile al Parlamento britannico – era l’accordo che, finché non si fosse giunti a una nuova intesa, il Regno Unito sarebbe rimasto sostanzialmente all’interno dell’Unione doganale, attraverso la creazione di un unico territorio doganale UE-UK senza barriere tariffarie, quote, contingenti o controlli sull’origine dei beni negli scambi tra UE e Regno Unito, ad eccezione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura. In particolare, il Codice doganale dell’Unione, Reg. (UE) n. 952/2013, avrebbe trovato applicazione all’Irlanda del Nord, al fine di evitare restrizioni alle imprese di quel territorio all’interno del mercato unico nonché un confine fisico tra Irlanda e Irlanda del nord, ivi inclusi i vincoli relativi a una serie di regole UE sul movimento dei beni inclusa la fiscalità in materia di IVA e accise, le misure sanitarie e fitosanitarie, la produzione agricola e gli aiuti di stato.
Il Regno Unito, aldilà delle misure specifiche per l’Irlanda del Nord, avrebbe dovuto allinearsi alla Tariffa doganale dell’Unione europea, non potendo stabilire riduzioni o esenzioni daziarie né quote o contingenti per i beni importati da Paese terzi né applicare regole di origine diverse da quelle unionarie. Le misure di difesa commerciale e la gestione del Sistema di Preferenze Generalizzate sarebbero rimaste prerogativa esclusiva dell’Unione europea su tutto il territorio doganale UE-UK, avendo l’Unione al riguardo solo un obbligo di consultazione con il Regno Unito. In aggiunta, l’ufficio europeo per la lotta alle frodi (European Anti-Fraud Office, OLAF) avrebbe potuto iniziare investigazioni per un periodo di quattro anni dopo la fine del periodo di transizione per fatti compiuti durante quest’ultimo e anche oltre in caso di accertamento di dazi.
Misure lontane dal recupero della sovranità agognato dai promotori della Brexit, per i quali il controllo delle frontiere è aspetto imprescindibile, necessarie però ad evitare un pericoloso inasprimento dei rapporti tra Irlanda e Irlanda del Nord, salvaguardando il Good Friday Agreement del 1998, nonché utili a minimizzare lo shock della Brexit limitando i danni alle reciproche industrie e alla catena del valore. In quest’ottica era da inquadrare anche l’accordo sulla mutua protezione dei diritti di proprietà intellettuale e delle indicazioni geografiche di origine.
D’altra parte, non bisogna sottovalutare le spinte centrifughe che un’intesa del genere avrebbe suscitato in Scozia per il trattamento speciale riservato all’Irlanda del Nord in riferimento alla sua permanenza nel mercato unico. Al contrario, tali valutazioni hanno contribuito a determinare la disapprovazione del Parlamento di Westminster e la possibilità che il Regno Unito esca dall’Unione senza accordo.
Per evitare tale scenario, è necessaria un’intesa sulla separazione – in termini più o meno diversi rispetto a quelli appena respinti – o una proroga dello status quo per un tempo sufficiente a sciogliere il dilemma Brexit. In entrambi i casi l’Unione europea dovrà dare il proprio benestare. Benestare non richiesto qualora il Regno Unito decidesse unilateralmente di revocare l’attivazione dell’art. 50 del TUE che ha innescato il processo di uscita dall’Unione. Sul versante europeo, invece, al momento il negoziato ha evidenziato tutto sommato una compattezza tra i ventisette stati membri per certi versi inaspettata che può servire a sopire tendenze simili in atto in altri Paese UE, a patto di accelerare il processo di avvicinamento dei popoli dell’Unione europea alle sue istituzioni.
Ad ogni modo, i travagli che affliggono la controparte britannica non possono lasciare tranquilli gli stati membri UE, alcuni dei quali – Italia inclusa – hanno profondi legami economici e finanziari oltremanica. A tal proposito, si tenga presente che nel 2017 l’interscambio Italia-UK si è attestato a circa 35 miliardi di euro, con oltre 11 miliardi di euro di avanzo commerciale in favore dell’Italia che collocano il Regno Unito alle spalle dei soli Stati Uniti nella classifica dei saldi attivi registrati dall’Italia nel commercio con l’estero, ed è pertanto giustificata una certa preoccupazione sull’impatto della Brexit sia per l’economia italiana sia per i cittadini italiani residenti oltremanica.
Nel lungo periodo, tuttavia, l’impatto più importante della Brexit sarà politico, poiché l’uscita di un Paese dall’UE difficilmente potrà essere catalogata tra i casi di successo dell’Unione, sebbene nel corso dei decenni la Gran Bretagna si sia distinta più per essere lo stato membro con maggiori deroghe alle regole UE – in materia di moneta unica, accordi di Schengen, carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cooperazione giudiziaria e in materia penale – che tra i promotori di una più stretta integrazione tra gli stati membri. Sul punto, sarebbe opportuno che la Brexit induca a una riflessione sui processi di integrazione e di allargamento in atto nell’Unione, sia nell’ottica di favorire una più marcata democratizzazione delle istituzioni europee, sia per evitare di coinvolgere nell’Unione del futuro Paesi restii ad osservarne la normativa comune.
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