Torniamo alla lira? Un gioco macroeconomico e le sue implicazioni

scritto da il 23 Dicembre 2018

Torniamo alla lira, sì! Suvvia, cimentiamoci almeno in un’ipotesi da laboratorio! Che cosa ci costa? Anzitutto, è necessario fissare un tasso di cambio. Restiamo sempre una discreta economia aperta, non possiamo mica sottrarci alla legge dei mercati. Di conseguenza, siccome siamo audaci e baldanzosi e, nell’ambito delle fantasticherie, non esistono tabù, stabiliamo un cambio fisso alla pari: una lira vale un euro e viceversa. “Che stupidaggini!” qualcuno potrebbe dire. “Se una lira vale un euro, è evidente che un euro vale una lira”. Invece, il processo non è proprio così scontato.

Il nostro nuovo conio, comunque, appare fin dall’inizio abbastanza forte; il che sembrerebbe giustificato dalla necessità di tenersi alla larga dall’inflazione e dalle fluttuazioni che danneggerebbero pericolosamente il PIL. Giusto. Come negarlo?

Nello stesso tempo, la nostra Banca Centrale deve mostrarsi efficiente e pronta ad acquistare e vendere euro e lira. Se gli oppositori chiedono perché debba farlo, allora siamo messi talmente male da non sapere dove sbattere la testa: a loro beneficio, ricordiamo che ogni fenomeno d’import-export determina un passaggio valutario e una variazione della bilancia dei pagamenti.

Tuttavia, i mercati – ricordiamocelo! – non sono al nostro servizio e, se noi decidiamo di competere in un determinato modo, dobbiamo avere la forza per farlo. A un certo punto, infatti, investitori d’ogni genere e specie possono chiedere una tale quantità di euro da azzerare le nostre riserve. Che deve fare il governo? Le soluzioni non sono molte. Bisogna abbandonare il cambio fisso a vantaggio di quello variabile e svalutare la lira. È vero: qualche buontempone può ribattere dicendo “che c’importa dei mercati?”. Certo, se vendi frutta e verdura abusivamente in uno dei tanti vicoli di periferia, forse, te ne puoi fregare. Forse. E fino a un certo punto. Il punto oltre il quale non si può andare è costituito dai prezzi che, presto o tardi, risentono della svalutazione e salgono alle stelle. Non c’è scampo. Neanche chi vende frutta e verdura abusivamente in uno dei tanti vicoli di periferia se ne può fregare. La vicenda ci riguarda tutti da vicino.

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I più raffinati ci informano che esiste l’alternativa del currency board, una sorta di comitato atto alla tutela dei meccanismi di emissione della moneta. Tali meccanismi sono basati sull’obbligo di detenere una certa quantità di euro, nel caso in specie, o dollari (misura adottata da Panama, per esempio) da parte della banca centrale. Detenere moneta, tuttavia, ha un costo e questo costo si chiama interesse, interesse che, a propria volta, si ribalta sull’economia interna. Che lo si chiami ‘currency board’ o ‘euro standard’ poco importa. Importa sapere, però, che, se, da un lato, la lira è apparentemente salvaguardata, dall’altro l’affidabilità dell’Italia viene messa in discussione, così da generare un incremento spaventoso degli interessi sul debito.

Gli investitori, quei maledetti, pretendono premi di rischio più alti nel momento in cui uno Stato stenta a far fronte ai propri impegni finanziari. In pratica, si ricomincia daccapo? Esattamente! Dunque: al momento, cioè dopo il nuovo conio e a causa degli speculatori, gli scenari possibili sono due: o accettiamo il variabile e svalutiamo la nostra moneta, imbattendoci nell’inflazione e in tutto ciò che ne consegue, o optiamo per il tasso di cambio variabile e ci facciamo carico degli interessi. In entrambi i casi, la situazione è molto sgradevole.

Anzitutto, è evidente che non possiamo continuare a lanciare invettive contro gli speculatori perché, se noi scegliamo di battere moneta e lo facciamo in libertà, anch’essi in libertà possono decidere di acquistare euro e vendere lira. In secondo luogo, tanto più contestiamo gli speculatori quanto più essi possono vendicarsi non comprando i nostri titoli di Stato e acquisendo posizioni short su di noi, per così dire. In terzo luogo, è appena il caso di fare due conti in casa, senza continuare a dare la colpa agli altri, quindi torniamo al primo scenario e riesaminiamolo.

schermata-2018-12-23-alle-10-15-50La lira è appena stata svalutata. I prezzi, anche se non immediatamente, crescono e pure tanto. Ciò che, sulle prime, appare come uno stimolo per le imprese, nel tempo, si rivela un disastro perché aumenta la velocità delle transazioni, ma si riduce di molto la quantità di saldi monetari. A mano a mano, crollano i consumi e, a seguire, i posti di lavoro. Le imprese devono licenziare. In circostanze simili, il tasso d’interesse aumenta nel tentativo d’attrarre nuovi investitori; la qual cosa, nel contempo, danneggia gli investimenti. Il governo, allora, concepisce una politica fiscale espansiva: aumenta la spesa pubblica e riduce le imposte. Ne derivano immediatamente un aumento del reddito e un miglioramento dei consumi, ma questa misura spinge verso l’alto il tasso di cambio, la valuta viene riapprezzata e le esportazioni vengono colpite gravemente.

C’è poco da fare. Non si può uscire sul balcone ad agitare il pugno.

Ci resta il secondo scenario. Il currency board o ‘percorso’ di eurizzazione. Ci teniamo sempre la lira, ma abbiamo una bella scorta di euro a garanzia e il tasso di cambio è fisso. Attenzione! Avere le garanzie valutarie non vuol dire sottrarsi al giudizio dei mercati. Infatti, in caso di difficoltà simili a quelle prospettate, cioè qualora si materializzi un qualche attacco ‘speculativo’, la nostra banca centrale acquista una gran quantità di titoli di Stato. I sovranisti, a questo punto, cantano vittoria, dal momento che usano sempre questo argomento come cavallo di battaglia. Fermi tutti! Non si può ancora cantare vittoria.

Perché? Perché acquistare titoli di Stato vuol dire immettere liquidità nel mercato interno (siamo un’autorità monetaria, in questa fantasticheria, ricordiamocelo!). Le banche, di fatto, dovrebbero ricominciare a finanziare famiglie e imprese. Se le banche fanno il proprio dovere, il tasso d’interesse si riduce parecchio. Perché? Perché l’eccesso di liquidità porta a un aumento dei depositi, cosicché gli istituti di credito reagiscono col ribasso: è la variabile propria dei momenti in cui la quantità di saldi monetari è superiore alla quantità di moneta domandata. Cos’altro accade in circostanze come queste? Gli investitori si spostano altrove, alla ricerca di condizioni di migliore rendimento. A poco a poco si riduce, quindi, l’offerta di fondi mutuabili. L’allontanamento o fuga dei capitali, come spesso si sente dire, genera un ‘allarme paese’ inevitabile che fa impennare nuovamente gli interessi sul debito. E, poiché gli interessi si pagano o con l’imposizione fiscale o con altro debito, rischiamo di finire nei guai.

Anche in questo caso, la festa dei balconiani è rinviati soprattutto perché, adesso, i venditori di frutta e verdura, non potendo più vendere neppure abusivamente, a causa del carovita o della riduzione dei consumi o, diversamente, dell’aumento delle tasse, sono radunati proprio sotto il balcone e sono inferociti.

Eppure, costoro continuano a promettere aumento della spesa pubblica e riduzione delle imposte! Com’è possibile? Che cosa si può fare? Se il Giappone ha debito elevato e va avanti lo stesso perché non possiamo permettercelo noi? A chi fa paragoni col Giappone, purtroppo, non viene mai in mente di studiare anche una modesta paginetta di internet sull’economia che riguarda quel paese. Non diciamo un libro, per carità. Troppo pesante! Ma una qualsivoglia paginetta di internet sarebbe sufficiente per capire che la differenza in infrastrutture, innovazione tecnologica e dominio del terziario rendono impossibile qualsiasi tipo di paragone. Per fare come il Giappone bisogna essere il Giappone. Punto. “Come si fa?” è la domanda. Cioè: come si fa a garantire una certa spesa pubblica, unitamente alla riduzione delle imposte? Abbiamo la netta impressione che con la lira sia impossibile. Non è un caso, infatti, che i populisti, una volta sbirciate le carte essenziali abbiano rinnegato l’intera snervante campagna elettorale anti-euro, lasciando che fosse il popolo a confidare nella magia rivoluzionaria.

schermata-2018-12-23-alle-10-16-52Infatti, se si vuole ridurre il risparmio pubblico, attraverso l’aumento della spesa, e, nello stesso tempo, si vogliono ridurre le imposte, si deve sapere che diventa inevitabile l’aumento dell’interesse sul debito. Non si può mica far finta che non sia così. Questa scelta porta con sé il calo delle esportazioni nette e, di conseguenza, della produzione aggregata. Se per giunta, in assenza di una salvaguardia monetaria, a ciò si dovesse sovrapporre uno sbilanciamento dei cambi, una fluttuazione ingestibile, allora l’offerta di moneta, i saldi monetari e i prezzi interni si farebbero ingestibili e ci toccherebbe la triste sorte già toccata ad alcuni paesi latino-americani.

In sostanza, l’unica vera possibilità di praticare talune misure di welfare ci è data proprio da quell’euro tanto disprezzato dai sovranisti, che, naturalmente, non sanno quello che dicono. L’euro è l’unica reale protezione monetaria contro la fluttuazione dei tassi di cambio e contro la speculazione, che eroderebbero, in caso contrario, la nostra offerta monetaria. Un eccesso di spesa pubblica e la riduzione della pressione fiscale, tra le altre cose, di primo acchito, non solo fanno crescere la produzione, ma fanno anche apprezzare la moneta, ostacolando le esportazioni. Ebbene? Anche in questo caso l’appartenenza all’eurozona fa da scudo.

Senza l’euro, balconisti e pseudo-economisti padani non avrebbero neppure potuto aprire bocca per fare proclami sociali; il che è un bel paradosso. Se si considera, infatti, che l’euro è quella condizione di benessere socio-economico grazie alla quale essi hanno potuto proporre un certo programma elettorale, pur continuando a invocare l’uscita dall’euro, allora o hanno ingannato tutti con grande abilità o sanno davvero poco di macroeconomia.

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